La liturgia ambrosiana di questi giorni è totalmente orientata nella preparazione della solennità di San Giovanni Battista, di cui celebriamo il martirio questo sabato 29 di agosto. Pur con tutte le riserve per questa centralità data al Battista nell’ambito liturgico, rimane pur sempre il valore della sua meravigliosa testimonianza. Un’altra acquisizione un po’ imprevista è stata il recupero di questi due bei libri biblici, quali sono i due Libri dei Maccabei, che una certa teologia biblica squalifica sbrigativamente come frutto maturo del sionismo giudaico.
Invece, a me pare che l’insieme della liturgia della Parola di questi giorni riproponga alla nostra attenzione due temi fondamentali per la nostra fede cristiana.
Il primo è quello dell’attenzione alla Storia, nella fattispecie alle vicende socio-politiche che l’attraversano. L’epopea maccabaica, un po’ come la nostra Resistenza, ci dice ancora una volta che “la Storia siamo noi”. Non nel senso fuorviante che ciascuno di noi ha in mano le sorti della Storia. La Storia siamo noi nel senso che è il frutto e la miscellanea di tutte le nostre piccole, o grandi decisioni. Ecco allora che, se raramente un uomo, o una donna, può segnare il corso degli eventi, è invece vero che tutti noi, con le nostre scelte, favoriamo, o rallentiamo, il crescere del Regno di Dio.
La vicenda maccabaica non è frutto solamente del dispotismo ellenistico, a partire soprattutto dal dispotismo di Antioco IV°. Quanti Antioco la Storia ha conosciuto e conosce tutt’ora? Ma l’epopea maccabaica è stata possibile, perché Giuda Maccabeo ed altri con lui si sono presi a cuore, si sono messi in gioco di fronte a quelle ingiustizie e a quelle sopraffazioni. Hanno ricordato che la Fede ed i suoi valori sono più importanti della stessa vita fisica. Se avessero voltato le spalle, se avessero atteso che altri cominciassero, se avessero cercato a tutti i costi delle false giustificazioni, per starsene tranquilli, ebbene, se avessero scelto una qualsiasi di queste posizioni, noi oggi non potremmo ricordare il martirio e la resistenza eroica di un intero popolo.
La questione risulta ancor più interessante, se teniamo conto che nel II° sec. a. C, a differenza di gran parte dell’Antico Testamento, la realtà dell’immortalità dopo la morte fisica era una nozione chiara per il credente giudeo. Ecco, allora, che l’idea d’immortalità, lungi dallo squalificare questa vita terrena, dà invece nuova linfa all’impegnoper trasformarla, in accordo con la volontà di JHWH. Per Giuda maccabeo ed il suo clan combattere le vessazioni dei vari governatori ellenistici è il modo di conformarsi alla volontà di JHWH ed al Suo progetto per Israele.
Questa responsabilità nei confronti della Vita passa attraverso la presa in carico personale delle vicende nel loro farsi quotidiano. Qui sta la radice ed il fondamento del martirio cristiano.
Innanzitutto, per mettere a fuoco questo aspetto, dobbiamo recuperare il significato originario delle parole martire/martirio. Nella lingua greca, nella quale fu scritto il Nuovo Testamento, sia il termine martirio, che testimonianza, vengono indicati dalla parola martyria. Questa identità di termini e di contenuti è presente nel linguaggio evangelico. Ciò significa il martire è colui che vive la testimonianza fino alle estreme conseguenze e il testimone è realmente tale, quando mette in gioco la sua stessa vita, non solamente le sue parole. La distinzione dei due concetti, introdottasi nella Storia della Chiesa, è qualcosa di posticcio e, ahimè, sospetto. Perché mai sarà stata introdotta questa tale separazione? Senza imbarcarci in un’inutile ricostruzione storico-linguistica, tutti noi intuiamo che questo sotterfugio contiene già la frattura, che attraversa la vita della maggior parte di noi cristiani.
Questa scissione la sintetizzerei in questo modo: per essere cristiani è importante/sufficiente ammirare l’insegnamento e le gesta di Gesù, magari testimoniando con le parole questa nostra ammirazione/devozione. Altra cosa è il dire/testimoniare tutto ciò con la propria vita, vivendo tutto ciò di cui ci diciamo entusiasti. Questa dimensione, lodevole ma facoltativa, appartiene a dei “super testimoni”, i martiri.
Al di là della correttezza, o meno, di questa mia ricostruzione, nella sostanza questa è la grande schizofrenia e la grande ambiguità, che attraversa tutta l’era cristiana, grosso modo da Teodosio fino ai nostri giorni.
L’ “Evangelii Gaudium” tenta di ricucire questa letale frattura reintroducendo l’idea del credente “discepolo missionario di Gesù Cristo”. Meglio sarebbe stato parlare espressamente di testimone; ma chi ha letto “Evangelii Gaudium” avrà certamente colto la distinzione introdotta dal Papa tra il proselitismo, è l’evangelizzazione frutto della testimonianza, che si fa attrazione alla sequela di Gesù.
In ogni caso, il frutto di queste molteplici riflessioni è che non ha alcun fondamento l’idea per la quale si possa annunciare il Vangelo, senza un mettersi in gioco, in prospettiva evangelica, dentro i fatti e le vicende della Storia. Questo metterci la faccia dipende da un’infinità di fattori e di variabili, tanto quanto è singolare la storia di ogni uomo ed ogni donna. D’altro canto non vi è storia umana, che non si trovi di fronte al bene ed al male, a ingiustizie e a gesti di grande gratuità, a progetti di oppressione e lotte di liberazione. Non serve andare in Bielorussia, o ad Hong Kong, per combattere contro il violento di turno. Basta guardarsi attorno e non voltare le spalle, di fronte al condomino arrogante ed irresponsabile; piuttosto che all’emigrante maltrattato da qualsiasi funzionario, perché non capisce il burocratese dei moduli statali.
Il Signore della Storia propizia per ciascuno di noi le situazioni e le condizioni per permetterci di testimoniare da che parte stiamo, ciò in cui crediamo e chi è il Signore della nostra vita. E ciò lo si evince solo dalle nostre scelte, dalle nostre opzioni, con tutte le conseguenze del caso. Non dalle nostre parole, o da un’anonima proclamazione delle verità di fede.
Questo e nient’altro è il martirio cristiano!
Pe. Marco