Volenti, o nolenti, questo famoso versetto evangelico, che conclude il Vangelo di questa domenica, ha fatto riaffiorare in me tutti i peggiori stati d’animo, vissuti in questi tre anni e mezzo di esilio italiano. Infatti, con questo versetto si concludeva l’ultima e definitiva risposta di Dom Rubival all’Arcivescovo Delpini. Visto il carattere diabolico di questa citazione, qualcuno recentemente, per rincuorarmi, mi faceva notare la stoltezza di chi la riportò, il quale non ha forse colto quanto la stessa rivelasse la di lui inconsistenza…
Ma tant’è. L’intento di questo scritto non è certamente continuare a gridare in un deserto sempre più ostile…
Tornando invece al brano evangelico che contiene questo versetto, Lc 17,7-10, va detto, a onor del vero, che non è esclusiva di Dom Rubival l’errata interpretazione di questo testo; infatti molti lo leggono come un invito all’umiltà, da parte di Gesù; un invito a considerare l’inutilità di tutto ciò che facciamo, perché solo Lui conta e vale. In realtà, benché ciò sia vero di per sé, non era però l’intenzionalità con la quale Gesù l’ha pronunciato.
In realtà, l’intento di Gesù era quello di scuotere le profondità del nostro cuore, nel tentativo di rompere l’immagine pagana del divino, che tutti noi portiamo dentro. Questa immagine pretende di rivendicare una qualche possibilità negoziale con la divinità. Pertanto, l’uomo religioso e la donna devota compiono le loro buone opere, si mortificano volontariamente, rinunciando arbitrariamente agli aspetti più piacevoli di questa vita terrena, per conquistare la benevolenza di Dio.
In questa prospettiva, anche la vita cristiana può diventare un compito arduo, ma garantito, per conquistarsi il Paradiso, o comunque per essere benedetti da JHWH. Nel caso il Vangelo è il testo di questo contratto con Dio. Da questa prospettiva errata nasce quella domanda, che facilmente si trasforma in protesta: “Se ho fatto il bravo, se mi sono sacrificato tanto per il Signore, perché ora mia manda questa disgrazia? O perlomeno non mi ha evitato questa tragedia”.
In realtà, pur nell’enigmaticità del nostro titolo, Gesù vuol farci capire che il Vangelo è un dono per noi; anzi è il dono di cui noi tutti abbiamo bisogno per affrontare la fatica del vivere. Solo quando riconosciamo in noi la bellissima immagine della cerva del Sal 41, il nostro rapporto con il Vangelo sarà autentico. Infatti il salmista ha colto mirabilmente nel bramito disperato della cerva in cerca d’acqua negli uidian prosciugati l’immagine per dire la nostra condizione umana, quando siamo lontani dal Signore e dalla sua Parola. Ecco, allora, che l’incontro con Lui e la sua Parola non può che essere come il ristoro dell’acqua per quella cerva: un dono incommensurabile e rigenerante ad un tempo. Inevitabilmente, chi fa questa esperienza non può che vivere in un’attitudine di naturalità e gratitudine ad un tempo. Il vivere della Parola diventa una necessità ed, al tempo stesso, la giusta risposta ai nostri bisogni più profondi.
Indubbiamente, se ci lasciassimo inquietare più frequentemente dalla forza di questo brano, cadrebbero tante pretese, che spesso avanziamo verso Il Signore e verso gli altri. Il semplicissimo esempio dei contadini, che hanno semplicemente compiuto il loro dovere, vuole ricordarci che il Vangelo non è niente di straordinario e di meritevole. E’ semplicemente la risposta più autentica e profonda alla nostra sete vitale. Siamo noi che abbiamo bisogno di Lui. Probabilmente questa semplice verità fa sempre fatica a impossessarsi del nostro cuore. Ma quando si fa questa esperienza, ecco allora che la fame e sete di Vangelo diventa una necessità impellente, incontenibile, come la sete di quella cerva.
Il Signore ci conceda questa Grazia, per non lasciarci avvelenare da cibi e bevande contaminate!
Pe. Marco