In occasione della Solennità di Ognissanti mi sono ritrovato casualmente a vivere, più o meno, i sentimenti provati da Gesù nel Vangelo di questa domenica (Lc 21,5-28). Infatti, mentre guidavo la processione verso una cappellina, che ricorda i morti della peste, improvvisamente mi sono trovato di fronte ad una villa spettacolare su tre piani, letteralmente attaccata su uno dei tanti speroni, che dominano la città di Lecco, la valle dell’Adda, la valle del S. Martino e quel ramo del Lago di Lecco, che giunge fino a Bellagio. Un vero e proprio squarcio di Paradiso, ormai lottizzato dai “poveri” di Lecco e dintorni…
Essendo stato distratto dalla recita del Rosario da questo scenario, incantevole e provocante, al termine delle nostre devozioni ho chiesto informazioni sull’oggetto delle mie distrazioni e, mentre ascoltavo i miei interlocutori, ad un certo punto mi è uscita l’esclamazione: “Chissà se quel proprietario è consapevole, che anche lui dovrà morire!”. Ovviamente vi risparmio il percorso mentale, che ha fatto scaturire in me questa domanda.
Ebbene, a me pare che Gesù abbia fatto più o meno lo stesso percorso, prima di uscire con l’affermazione riportata nel Vangelo di questa domenica: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”. Analogamente i suoi uditori devono essere rimasti indispettiti da questa Sua provocazione, come qualche lettore dal mio pensiero sopra citato; ma, in un caso come nell’altro, solo di provocazione si tratta, per far emergere una questione molto più profonda. E la questione, quella sì decisiva, è la finitezza, la precarietà, la relatività di tutto ciò che siamo e facciamo su questa Terra. E’ quella che il grande filosofo Martin Heiddeger definiva “l’essere per la morte” di ogni cosa e di ogni essere vivente; con l’aggravante per noi umani di “essere consapevoli” di questa nostra tragica condizione.
Da qui la necessità per Gesù, più che per Heiddeger, di fare il salto di qualità, di passare dalla consapevolezza “della fine”, della finitezza, alla domanda “sul fine”, sul senso e la finalità, di tutto ciò che facciamo; fino a porci la domanda ultima e radicale sul senso e il fine della nostra esistenza.
Giocando magistralmente su queste due dimensioni costitutive dell’esperienza umana, Gesù, attraverso immagini pittoresche e drammatiche, c’introduce alla Sua risposta, che è contemporaneamente una proposta per la nostra Fede: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra Liberazione è vicina”.
Dunque, per Gesù “la fine” è una Liberazione, più che una tragedia, perché rivela “il fine” di tutto ciò che esiste e quindi anche della nostra esistenza. Ma questa, che sembrerebbe l’affascinante conclusione di un percorso filosofico e spirituale, in realtà rilancia l’intera questione, ponendoci domande ineludibili. Infatti, i discorsi escatologici dei tre Vangeli sinottici, come il Libro dell’Apocalisse, portandoci a guardare la Vita dalla sua fine, ci obbligano a rivedere tutto ciò siamo e facciamo, guidati dalla domanda “sul fine”, sulla meta e lo scopo della nostra esistenza.
In altre parole, come tengo presente il fine della mia esistenza in tutto ciò che faccio? Ovvero, qual è la meta a cui tendo nel mio vivere? Ma allora cerco di mettere a frutto ogni risorsa ed ogni momento in vista di quella meta? Oppure vivo “alla qualunque”, chiedendo al dio degli dei di salvarmi miracolosamente? Eh sì, perché “se dicono che è misericordioso” in qualche modo mi dovrà pur salvare… Ma in quel giorno scopriremo cosa voleva dire Gesù quando disse: “Non chi dice: Signore, Signore! Entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei Cieli”.
Chissà, se in quel giorno la bellissima villa con vista Lecco e dintorni sarà servita per la Vita Eterna…
Pe. Marco