Per una fede testimoniale
A margine di Is 65,13-19; Ef 5,6-14; Lc 9,7-11
Le letture di questa domenica risentono pesantemente della recente (contro)riforma liturgica, che ha segnato recentemente la vita della Chiesa ambrosiana. Ovviamente non mi dilungherò su questo aspetto, bensì su questo dato, lapalissiano, ma al tempo stesso provocante. Il tradizionale tempo ordinario, o “per annum”, della liturgia ambrosiana, è segnato inequivocabilmente dalla figura di San Giovanni Battista e, specificamente, dal suo martirio, non dalla sua nascita, come avviene nelle tradizioni lusitane. Infatti il tempo ordinario ambrosiano è diviso in due parti in riferimento a questa memoria. Perché dunque tanta importanza per questa figura e per la sua fine tragica?
Certamente non ho gli strumenti storici per una ricostruzione congrua di questa scelta, ma mi piace immaginare, che, alla radice di questa tradizione, vi fosse una sottolineatura dell’importanza del martirio per la fede cristiana. Purtroppo quando si parla di martirio, anche tra di noi cristiani, si enfatizza la dimensione cruenta e sacrificale, al punto che non pochi teologi o “maestri spirituali” tendono a rilegarlo dentro la sfera sacrificale del sacro, cara all’Antico Testamento e, più ancora, a tutte le religioni pagane. Il che, ovviamente, non può che produrre il suo inesorabile abbandono. Certamente l’incontro tra le spiritualità e le psicologie “new age” e l’inflazione del termine misericordia, fa sì che questa tematica sia decisamente scomoda e fuori moda. Eppure come potremmo ancora dirci cristiani eludendo questo tema? Come potremmo ancora dirci cristiani, se la nostra spiritualità non avesse più come riferimento fondamentale il martirio? Anzi, non sarà proprio l’abbandono di questo valore uno dei motivi principali della debolezza del cristianesimo, soprattutto occidentale? Ma chi è realmente il martire cristiano?
Come dice bene l’origine greca della parola, il martire è un testimone, nel caso un testimone di Gesù di Nazareth e della sua nuova prassi di vita. È qualcuno che ha preso talmente sul serio il Vangelo, che non ha altra ragione di vita; così che la sequela di Gesù, il vivere ciò che Lui ha vissuto, è il suo pensiero dominante. Per questo motivo incontra e vive le stesse resistenze e le stesse persecuzioni di Gesù; “se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi…”, mi pare avesse detto una volta.
Usando parole non mie, dovremmo dire che il martire rappresenta “il caso serio della fede”; esattamente perché, in realtà ed al contrario del “common sense” cattolico, il martirio, indipendentemente dalle sue specificazioni storiche e contingenti, rappresenta il cammino normale del credente. Ovvero, il vero credente, nella misura in cui prende sul serio la sequela di Gesù, non può non esperimentare la persecuzione. Su queste premesse, se vogliamo portare questa questione alle sue estreme conseguenze, in una Chiesa di veri credenti non dovremmo aver bisogno di parlare, spiegare, motivare il martirio, perché per i credenti autentici il martirio è cosa ovvia e inerente al loro credere. Forse il vero problema su cui dovremmo confrontarci è, se è possibile una fede cristiana senza martirio, ovvero senza testimonianza della stessa. Vista da questa angolatura, forse, ci appare in una luce nuova anche la preoccupazione fondamentale, che anima il pontificato di Papa Francesco: far sì che tutti i battezzati si sentano responsabili di testimoniare la propria fede.
Al di sotto di questo “minimo ecclesiale” mi pare che dovremmo dire che siamo ancora nei “preambula fidei”, nelle premesse, nel cammino di avvicinamento ad una vita di fede cristiana.
d. Marco