Mi chiamo Alpha, sono nato in Senegal l’ 1 gennaio 1984, sono mussulmano, ho moglie e un figlio.
Sono partito dal Senegal il 4 febbraio 2015 passando per Mali, Burkina Faso, Niger e poi Libia e quindi Italia. Il viaggio è durato 8 mesi. In Libia mi hanno messo dentro una casa: possiamo chiamarla una “prigione nascosta” da lì non potevo più uscire. Mi hanno detto per uscire da qui devi pagare. Io ho detto: “Come mai? Io ho già pagato il biglietto per arrivare qua”. Mi hanno risposto: “Qui devi ripagare”.
Poi io non avevo più il telefono, perché i Libici che ci hanno preso hanno ritirato i telefoni, poi mi hanno fatto parlare con il signore, che mi aveva chiamato per venire in Libia e gli ho detto: “Noi siamo arrivati fino a Saba e ci hanno messo in questa casa e mi chiedono i soldi, ma io non parlo arabo e non capisco”. Lui ha parlato con loro e non so cosa si sono detti; però io sono rimasto in prigione un mese.
Questo signore, che mi aveva detto di andare in Libia, lo conoscevo da quando ero piccolo; lui lavorava in Libia e io lo vedevo andare e tornare, ma non sapevo cosa c’era in Libia. Io non lavoravo e lui mi ha proposto di andare in Libia, perché dove lavorava lui cercavano manodopera. Mi ha spiegato la strada per andare in Libia. Dopo il mese di prigionia, siccome io avevo pagato il biglietto fino a Tripoli, mi hanno mandato avanti e mi hanno fatto arrivare a Tripoli.
Ma questa era un’altra grande prigione: ho visto più di mille persone. Quando sono arrivato lì mi hanno subito messo dentro, sono rimasto lì circa due mesi prima di vedere lui, il signore che mi aveva proposto di venire in Libia. Io gli ho detto: “Come mai?”. Lui mi ha detto: “Qua è così”.
Il problema è che, quando ti beccano e ti mettono in prigione, ti chiedono di chiamare una persona; quando quella persona viene ti lasciano andare: perché il loro business è questo: prendere persone dall’Africa, portarle in Libia e poi lì chiedono ancora soldi. Chi non riesce a pagare viene picchiato, perché pensano che non vuole pagare. Poi se non paga lo fanno lavorare.
Io ho vissuto quattro o cinque mesi in quella prigione, uscivo solo per andare a lavorare. Loro ti seguivano e quando tu lavoravi loro stavano di guardia con il fucile.
Un giorno sono riuscito a scappare e ho trovato un altro signore, era anche lui un arabo. Mi ha chiesto dove andavo. Io gli ho spiegato tutto. Per fortuna lui mi ha accompagnato. Lui non abitava a Tripoli, ma in un paese vicino e mi ha portato a casa sua. Qui sono rimasto circa due mesi; lavoravo con lui; non mi pagava tanto, ma stavo bene. Io non sapevo cosa fare perché in Libia puoi entrare ma non puoi uscire.
Dopo due mesi sono andato a Tripoli. Qui ho incontrato un ragazzo del Gambia e sono andato dove viveva lui, diciamo un campo. Quando ero lì, ho chiesto per tornare indietro, ma mi hanno detto che da qua non si può tornare. Quando arrivi qui, non c’è più una strada per tornare. Dovresti conoscere un arabo che ti porta fino in Tunisia; qui non è come Africa o Europa, dove ci sono i pullman; qui non ci sono mezzi di trasporto. Allora ho deciso di andare avanti, però non avevo soldi. Allora sono andato a lavorare come muratore, ma a volte ti pagano, a volte invece no.
Finalmente il 27 settembre ho potuto lasciare la Libia e il 28 settembre sono sbarcato in Italia a Crotone in Calabria. Da lì ci hanno portato a Milano e poi a Lecco. La storia è lunghissima non mi ricordo tutto.
A Lecco ero nel campo del Bione, gestito dalla cooperativa “Itaca”. Dopo 6 mesi mi hanno trasferito in Via Ferriera 1, vicino alla Stazione. Sono stato lì quasi due anni. In questo periodo ho fatto tanti piccoli lavori. Sono andato a lavorare anche a Milano, ma erano tutti contratti brevi, anche di solo una settimana. Ho lavorato anche in ristoranti a Lecco e Dervio. In uno di questi mi hanno fatto un contratto part-time di 20 ore, ma non lavoravo meno di 40-50 ore la settimana. Poi ho lavorato come saldatore e adesso sto lavorando in una ditta metalmeccanica a Dervio.