Anche per questa domenica la Liturgia della Parola prende spunto da un brano tratto dal Terzo Isaia. Attraverso le sue travolgenti visioni il popolo è chiamato a sognare cosa sarà Gerusalemme, quando raccoglierà i frutti della sua adesione al Signore.
Infatti il modello socio-politico, scaturito dalla sua adesione radicale alla Legge del Signore, la renderà una città alternativa. Ma la vitalità di questo suo essere alternativa la renderà altresì affascinante, attraente, per tutte le nazioni e per tutti i popoli.
Ovvero non sarà lei ad andare a cercare le genti, perché le genti stesse chiederanno di abitare in lei.
Queste visioni su Gerusalemme, come dicevo settimana scorsa, ben prefigurano il compito della Chiesa nel mondo.
Ebbene, la Chiesa per poter essere così, per poter svolgere questa sua funzione, ha bisogno che i suoi figli siano realmente discepoli di Gesù, ovvero prendano sul serio gli insegnamenti del loro Maestro, indipendentemente dalle convenzioni sociali, certi che lì troveranno la Vita piena.
E oggi Gesù nel Vangelo mette il dito nell’ennesima piaga dell’umanità: l’ipocrisia.
Certo, Lui non la cita espressamente, ma gli atteggiamenti che Lui descrive sono il pane quotidiano degli ipocriti.
Ovviamente non ha senso cadere nello psicologismo, o sognare una trasparenza assoluta, impossibile per gli esseri umani. Eppure ci accorgiamo che gli atteggiamenti oggi descritti da Gesù sono ciò che più mina la nostra convivenza umana. Ed anche a questo livello la nostra differenza cristiana è poco più che evanescente.
Infatti, qualcuno può forse dire che i cristiani registrano una maggior coerenza, una maggior corrispondenza, tra ciò che tengono nel cuore e ciò che dicono a parole?
A voler essere meticolosi, la discrepanza comincia già quando si tratta di assumere pubblicamente il proprio essere cristiani, il proprio essere discepoli di Gesù. Chi lo fa più in modo serio e credibile nel nostro contesto occidentale?
Con serio e credibile intendo differenziarmi radicalmente da tutte le forme, con le quali i simboli religiosi vengono usati come strumenti per deliranti battaglie primatiste e patriottiche.
D’altro canto il connotare cristianamente le nostre analisi della realtà ci espone alle inevitabili pressioni ed agli inevitabili giudizi. E allora? Meglio “stare nascosti”, “stare sottocoperta”, per non dover rendere conto pubblicamente delle nostre incoerenze.
Purtroppo, però, da qui in avanti tutto diventa possibile, perché la priorità non è dirci per quello che siamo, bensì costruirci una serie infinita di maschere, adatte alle varie situazioni ed ai vari interlocutori, con i quali abbiamo a che fare. Fino al paradosso di catalogare come anormali le persone che tra di noi vivono, o ricercano un minimo di coerenza nel loro agire. La loro ostinazione, nella ricerca della massima trasparenza, è vista come una follia, frutto di un’utopia maniacale.
Ma, ripeto, la dimensione più tragica di questo male radicale sta esattamente nel fatto che gli uomini e le donne di Chiesa, come spesso succede, hanno rivestito di sacralità, ciò che in realtà è profondamente diabolico.
Infatti, più si frequentano gli ambienti ecclesiastici, più è difficile realmente sapere ciò che pensano e ciò che vogliono i nostri interlocutori. Il clima è sempre apparentemente caldo e accogliente, i sorrisi abbondano, il linguaggio accuratamente anestetizzato; ma le intenzionalità profonde rimangono accuratamente nascoste. Anzi, a me sembra, che l’esercizio esasperato di questa ipocrisia, falsamente denominata carità cristiana, produce degli effetti così perversi e profondi, che molto spesso i nostri interlocutori non hanno un pensiero ed un’identità propria.
La loro unica identità consiste nel “galleggiare”, sballottati tra un interlocutore ed un altro. Purtroppo, seguendo molto da vicino la parabola della selezione dei nostri politici, anche per le autorità ecclesiastiche, clericali o laiche che siano, vige la regola non scritta secondo la quale più nascondi le intenzioni del tuo cuore, più responsabilità ti vengono affidate.
Per non parlare dei nostri organismi ecclesiali e delle nostre riunioni pastorali, dove la preoccupazione principale non è aiutarci e sostenerci reciprocamente nel vivere il radicalismo cristiano, bensì ingannarci reciprocamente nel renderlo innocuo, inefficace. Far di tutto perché non appaia che, il radicalismo cristiano, è il nostro riferimento inevitabile e l’ideale sul quale ci stiamo impegnando.
Ma, di questo passo, di quale luce potrà mai brillare la Chiesa? Infatti, se è vero come è vero quanto oggi ci dice Gesù, secondo il quale comunque ciò che siamo “viene fuori”, è chiamato a manifestarsi, ecco allora il perché della grande repulsa di cui soffre oggigiorno la Chiesa. Infatti il venire alla luce di queste identità cristiane sempre più annacquate ed indefinite, quale segno potrà essere per il tanto vituperato “mondo”? Non saremo forse noi, apparentemente cristiani, la causa principale della secolarizzazione dilagante?
Pe. Marco