Carissimi tutti,
approfitto di questo finale di anno pastorale, prima di entrare nel clima della vacanze, per scrivervi qualche riflessione, che da diversi giorni mi frulla in testa, ma solo ora posso tradurre in uno scritto.
Questi spunti sono essenzialmente una riflessione su questi primi giorni del nuovo Papato. Lo spunto, non a caso, lo prendo da questa famosa, quanto semplice, frase, che l’ex Prefetto delle Congregazione per il Clero, il Cardinale brasiliano Claudio Hummes, ha sussurrato al nuovo Papa, durante il Conclave, quando ormai i voti lo indicavano come futuro Papa:” Non dimenticarti dei poveri!”. Io non so se è il caso e quanto valga la pena fare l’analisi del perché di questo suggerimento. Il motivo più banale è che il Card. Hummes è un frate minore. A me pare, però, più interessante leggere in questi dettagli, apparentemente banali, l’azione dello Spirito, che, dalla rinuncia di Benedetto XVI° in qua, sembra prendersi a cuore la Chiesa in un modo più trasparente e immediato. Non che lo Spirito abbia mai abbandonato la Chiesa; ciò che io vedo è un modo più semplice e immediato con cui lo Spirito sta guidando la sua Chiesa in un momento storico in cui, certamente, è più provata nella sua fedeltà a Gesù.
Sta di fatto che dalla “banalità” di questo suggerimento è scaturita la scelta per il nome Francesco. Orbene cosa non ha prodotto e sta producendo questa scelta ancora non ne abbiamo un’idea, pur avvertendone chiaramente alcuni segnali chiarissimi.
Il primo e più evidente, confermato dallo stile francescano di questo gesuita, è che “in un batter di ciglio”, come solo Dio sa fare, una Chiesa, la nostra Chiesa, sempre più avviluppata su sé stessa, perlomeno dal punto di vista magisteriale, e sempre più incapace di parlare all’uomo comune, all’improvviso questa Chiesa è ridiventata comprensibile a tutti, amici e nemici, credenti o meno. E il segnale per me inequivocabile di questa “comunicabilità” della Chiesa, o perlomeno del suo Papa, è che ogni settimana quando parlo al telefono con mia mamma, sempre dobbiamo soffermarci a commentare qualche parola o qualche gesto compiuto da Papa Bergoglio. Non perché prima non lo facessimo. Il fatto è che prima le sue annotazioni si soffermavano su aspetti esteriori e non certo di contenuto (com’era affaticato; non riusciva a parlare; non riusciva a camminare; oh che pena mi ha fatto e così via). Adesso la nostra comunicazione verte invece sul contenuto essenziale del gesto compito o della parola proferita.
Ma come ha potuto avvenire questo cambiamento tanto repentino? Perché la Chiesa parla ancora alle moltitudini? Perché il nuovo Vescovo di Roma, anziché impegnarsi nello smascherare e denunciare i mali del mondo, che possono contaminare la Chiesa, si preoccupa innanzitutto di vivere ciò che Gesù ha vissuto: l’amore preferenziale per i poveri, in tutti i sensi e in tutte le dimensioni, non semplicemente economiche. Questa opzione non traspare solo dai gesti simbolici, che ama fare. Appare soprattutto dalla semplicità e immediatezza con cui, costantemente, cerca di guardare ogni situazione ed questione a partire di chi è povero o escluso nella vicenda trattata.
Questo amore preferenziale per i poveri ha brillato nuovamente, sulla Chiesa e sul mondo, dopo decenni di silenzio, dopo che i segnali più promettenti del Vaticano II° sono stati congelati dalle inutili preoccupazioni per “un’autentica interpretazione del Vaticano II°”. Questo recupero esistenziale, più che teorico, della prima Beatitudine “Beati i poveri nello Spirito” ha fatto sì che si attuassero le parole di San Francesco: “Se non si passa per madama povertà, non si può capire cos’è il Vangelo”.
A questo punto risulta evidente un secondo e ancor più importante messaggio, insito nella scelta del nome Francesco. Non sarò certo io ad impegnarmi in un’analisi storiografica della portata della testimonianza di Francesco per la Chiesa del suo tempo. Un fatto evidente fu la sua preoccupazione di contribuire ad una riforma della Chiesa; “restaura la mia Chiesa” sentì dirsi dal Crocifisso a San Damiano. In un tempo di grandissime contraddizioni per la Chiesa, lacerata da vari tentativi terminati in eresia, Francesco, guidato dallo Spirito di Gesù, coglie nella relazione del credente con la ricchezza il pericolo più grande per la sequela del Signore Gesù. Certamente la risposta incontrata e vissuta da Francesco e Chiara è una risposta limite, per certi versi paradossale e profetica. Ma esattamente questa paradossalità metteva in luce dove stava il problema e quale doveva essere il cammino ad essere percorso. Ovvero, ben sapendo che la radicalità scelta da Francesco e i suoi compagni non può essere proposta, né tanto meno imposta, a tutti i cristiani, ciò che conta è il nocciolo del problema, ovvero l’incompatibilità tra la sequela di Gesù e l’accumulo delle ricchezze, del denaro. La povertà evangelica, ovvero la ricerca costante dell’essenziale, quanto a ricchezze materiali, è condizione irrinunciabile per essere liberi e disponibili a seguire il Signore nella costruzione del Suo Regno. E la prima conseguenza, che scaturisce dalla scelta di vivere la povertà evangelica, è l’essere solidali con i poveri per necessità, con gli impoveriti, gli esclusi dal banchetto della vita, perché possano anche loro partecipare della Festa della Vita.
Certamente ottocento anni e più dopo San Francesco e Santa Chiara, pur con modalità diverse, la Chiesa si ritrova a fare i conti con la povertà evangelica, troppo spesso esclusa dalle nostre liturgie e dalla nostra pastorale. Per questo siamo diventati sempre più insignificanti, soprattutto in quell’Occidente dove il denaro è diventato il vero onnipotente.
Ma proprio lì, nel cuore dell’Occidente, un Vescovo di Roma, che cerca testardamente l’essenziale e invita la Chiesa intera a fare lo stesso, rende di nuovo interessante e intellegibile il Vangelo di Gesù. Certamente non sono così ingenuo da confondere questo interesse con la conversione evangelica. Questa richiede ben altri passi! Di sicuro però per molti, che stanno toccando con mano le conseguenze della seduzione diabolica delle ricchezze, questa luce, che promana da Roma, potrebbe diventare presagio di nuovi cammini, meno ricchi materialmente, ma più umani.
Purtroppo, ma questa è solo una mia sensazione passibile di gravi errori; purtroppo, dicevo, mi spaventa un po’ un certo “assordante silenzio” della gerarchia che conta, quella che normalmente parla in nome di tutta la Chiesa. Non so se non ha ancora avuto tempo di “riciclarsi” al linguaggio del nuovo Papa; o, peggio ancora, lo guardi come un Papa “periferico”, ovvero un Papa che ha i tratti di una periferia del mondo e, per ciò stesso, legato ad essa. Certamente simpatico e popolare, ma incapace di cogliere i veri nodi teorici della post-modernità. Traducendo questo concetto, sarebbe un po’ quello che mi sento dire molto spesso, quando sono lì in Italia: “Queste cose che tu ci dici le ascoltiamo volentieri, come narrazioni un po’ romantiche. Ma qui i problemi sono altri. Voi là dalla periferia del mondo non potete capire i veri problemi del mondo moderno.”; esattamente con la stessa logica con cui i sacerdoti di Gerusalemme guardavano Colui che veniva da Nazareth, ricordate?! Se così fosse perderemmo un’altra grande occasione, un po’ come è successo con San Francesco: ammirato ed esaltato, ma fondamentalmente relegato ad una funzione un po’ naif, certamente estranea alla quotidianità delle nostre vite e della vita delle nostre comunità cristiane. Al più la questione da lui sollevata riguarda il suo Ordine nei termini di una fedeltà al carisma.
In realtà con San Francesco sappiamo che “Se non si passa per madama povertà, non si può capire cos’è il Vangelo”.
Pe. Marcos