In questi mesi, segnati dalla pandemia, soprattutto in questa fase di ripresa verso una vita “normale”, sta ritornando con una certa frequenza un tema abbondantemente tradito, riaffiorato timidamente dopo la crisi del 2008. Si tratta del tema della giustizia sociale.
Dopo essere stato letteralmente radiato dagli scenari politico-economici dalla “coppia nefasta”, Reagan-Thatcher, a partire dal crollo del 2008 si è ricominciato a guardare la realtà per quella che è e non con il filtro dell’ideologia neoliberale. Soprattutto si è cercato di capire come mai, in generale, mentre i beni ed i servizi crescevano smisuratamente sul Pianeta, contemporaneamente le condizioni di vita di grandi fette della popolazione mondiale non miglioravano sostanzialmente.
Ed è così che i più onesti e preparati economisti hanno potuto farci vedere come “il difetto sta nel manico”; ovvero, a ben poco serve uno sviluppo tecnologico sfrenato, capace di produrre beni in modo ancor più sfrenato, se poi gli stessi non possono arrivare ad una buona parte della popolazione mondiale. Ovvero, fermo restando il valore intrinseco dello sviluppo della conoscenza umana, lo stesso a ben poco giova, se deve essere negato a miliardi di persone.
Se teniamo conto che l’attuale livello di sviluppo delle conoscenze umane già permette una vita più che buona ad un sesto dell’umanità; non vi è chi non veda che, estendendo i benefici di questo sviluppo a tutta l’umanità, la vita anche sulla Terra sarebbe ben altra cosa.
Esattamente su questa contraddizione vorrei focalizzare questa piccola riflessione; perché, se non viene collocata al centro delle agende politiche ed economiche, ogni altro discorso non supera la soglia del mero “flatus vocis”. Ovvero, questa tanto vituperata ripresa, che però non dovrebbe riportarci a “com’era prima”, per essere veramente tale dovrà mettere al centro della riflessione, non tanto come far aumentar il PIL e far crescere la ricchezza, quanto come distribuire la ricchezza in modo equitativo, che, alla resa dei conti, farà aumentare anche il PIL ed in modo certamente significativo.
Vorrei subito precisare che, come è stato abbondantemente dimostrato a livello teorico, un altro modello economico, fondato sull’economia circolare e sulla già citata economia distributiva, permetterebbe di far crescere il PIL, senza necessariamente continuare a depauperare le risorse del Pianeta.
Fermo restando l’impossibilità “ontologica” da parte del mondo liberale e neoliberale di cogliere il senso di questa prospettiva, la vera tragedia dell’umanità è che non esistono in questo momento grosse correnti politiche, che hanno assunto questo tema come loro bandiera politica; tranne che si voglia attribuire a Papa Francesco una valenza politica nel senso più stretto del termine. Ma questa possibilità è più dannosa che proficua… Infatti, tutta la variegata gamma della sinistra, fatti salvi i soliti gruppi minoritari ed antagonisti, sembra vergognarsi di parlare in modo chiaro e programmatico di giustizia sociale. Certamente lotta per migliorare le condizioni dei ceti meno abbienti; ma sembra aver vergogna di dire che la torta dei beni della Terra non è illimitata. Mentre invece una ridistribuzione più equa della “torta” beneficerebbe tutti, senza però spremere il Pianeta.
Purtroppo, la coppia di cui sopra, assieme ai loro ideologi di corte, ha inculcato il pregiudizio ideologico, secondo il quale vi sarebbe una incompatibilità ontologica tra economia di mercato e politiche di giustizia sociale. Ma solo questa separazione, di origine chiaramente diabolica, può ancora tenere separati questi due aspetti intrinsecamente correlati. Infatti, dopo secoli segnati dai più vari tentativi di economia politica, ormai è chiaro ad ogni uomo di buona volontà che, una politica economica, che non si lascia giudicare da una corretta concorrenza, può solo portare alla recessione ed all’impoverimento. Dall’altro lato la libera concorrenza e la mano visibilissima del mercato stanno producendo disastri che sono sotto gli occhi di tutti.
Certamente questo problema può essere affrontato solo in una prospettiva globale, anche se le singole scelte hanno sempre una concreta applicazione locale. In questo senso il problema è vasto e complesso. D’altro canto, la nostra epoca è la prima abituata, perlomeno a livello linguistico, ad usare un lessico mondiale. La parola “globalizzazione” è certamente la parola d’ordine degli ultimi quarant’anni, anche per il linguaggio popolare.
Ebbene, in questa prospettiva globale e complessa, se continuiamo come si è fatto finora, a sommergerci di analisi e discussioni, senza però intaccare niente della struttura ingiusta in cui viviamo, ebbene se continuiamo su questa strada, solo l’ennesima tragedia mondiale potrà farci rinsavire.
Invece, penso che, a partire dall’approfondimento degli studi economici più seri oggi in circolazione, si possono individuare alcune scelte simboliche e strutturali, che possono obbligare a rimodulare l’intero sistema. Personalmente vedo due ambiti, che mi pare possano fare da grimaldello per innescare il cambiamento del sistema: l’abolizione dei paradisi fiscali con i relativi dumping fiscali e il lancio di campagne per limitare la proprietà privata, sia a livello personale, che d’impresa. In particolare, riguardo a questo secondo punto, è importante abbattere il dogma che non ci possa essere un limite alla proprietà privata.
Dal punto di vista della Dottrina Sociale della Chiesa questo principio è assolutamente chiaro e assodato, benché sia sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cristiani. Si potrebbe, pertanto, “laicizzare” questo principio, per renderlo disponibile al dibattito politico e culturale. Inevitabilmente, per poter avviare questo tipo di dibattito sarà necessario collocare delle soglie piuttosto alte come limiti per i vari tipi di proprietà. Così facendo, inizialmente sarebbero colpiti solo i soliti ricchissimi, che, pur possedendo patrimoni incommensurabili, sono però ristretti come numero. Quindi, nel dibattito pubblico la loro voce dovrebbe essere sepolta dal clamore delle maggioranze impoverite. Al tempo stesso, però, una volta rotto il tabù su questa riflessione, si aprirebbe inevitabilmente un dibattito permanente, per ridiscutere al ribasso questi limiti.
Purtroppo, come dicevo, non essendo questi temi patrimonio di nessun grande partito politico, è necessario stanare gli stessi, o crearne di nuovi, che abbiano come base programmatica la ricerca della giustizia sociale.
Chissà, se nel confronto/scontro tra i vari modelli di ripartenza, non si apra qualche breccia per un’effettiva ricerca della giustizia sociale.
Pe. Marco