Per quanto riesca a ricordare, mi sembra che pochi altri testi riescano a rappresentare meglio la volubilità dell’animo umano come il Vangelo di questa domenica (Mt 11,16-19). Va’ da sé, che se già Gesù ne parlava ai suoi tempi, la radice del problema non è da ricercarsi nella crisi attuale della nostra Chiesa; semmai la stessa rende ancor più evidente la suddetta volubilità.
A mio avviso, la radice del problema è da ricercarsi nel rapporto complesso tra la Libertà umana e la Verità. Infatti, noi umani, pur essendo lucidamente consapevoli della nostra ignoranza, del nostro non avere la Verità innata, ciò nonostante tendiamo sempre a porci come criterio di misura per la realtà. In altre parole, noi siamo il vero ed il giusto: il vero ed il giusto è ciò che va bene a noi. Eh sì, ma cosa va bene, o meglio fa bene, a noi?
Nel contesto di crisi e di attesa, che era la Palestina ai tempi di Gesù, la Sapienza di JHWH parla attraverso queste due figure complementari, quali sono il Battista e Gesù. Però, presi a sé stanti e giudicati secondo le nostre aspettative, risultano entrambi insufficienti; mentre, in realtà, entrambi sono espressione della Parola di Dio, del suo parlare a noi.
Certamente il nostro contesto individualista postmoderno ha portato alle estreme conseguenze questa diabolica contraddizione; così che oggi in Occidente difficilmente si possono trovare dieci cristiani, che siano d’accordo su una qualche risposta alle sfide della Chiesa di oggi.
Per chi ha un po’ di memoria storica, anche quest’anno, in occasione della Giornata Mondiale di Lisbona, per l’ennesima volta abbiamo assistito alla rappresentazione di questo dramma profondo, che attraversa la Chiesa da molti decenni. Da un lato i grandi discorsi e le affascinanti visioni del Papa; dall’altro la complessità di una popolazione giovanile, attraversata da non poche contraddizioni, specchio di quel mondo adulto cattolico, che li ha generati e continua a tenerli sotto tutela.
E così abbiamo assistito ancora una volta ai ripetuti messaggi consolatori del Papa, nei riguardi di tutte le fragilità giovanili; oppure ai suoi appassionati appelli, affinché i giovani si riaffaccino nelle nostre Comunità, perché “le porte della Chiesa sono aperte”.
Dopo di che, cosa indichiamo ai giovani per superare la fragilità? Come pensiamo che i giovani possano affrontare le sfide di questo mondo, consapevoli delle loro e nostre fragilità? O pensiamo di passare tutta la vita a consolarli, alimentando un patologico vittimismo di fronte ai mali del mondo?
Ancora, cosa significa che le porte della Chiesa sono aperte? Sono aperte per portarvi dentro tutte le contraddizioni della postmodernità, pur di avere i numeri per mantenere le nostre devozioni e le nostre tradizioni? Oppure è un’apertura per cercare assieme, giovani e adulti, di riscoprire il radicalismo evangelico, le opzioni, semplici e chiare, di Gesù di Nazareth?
Orbene, personalmente, a parte le solite lodevoli eccezioni, faccio fatica a riconoscere una tensione profonda del popolo, che si dichiara credente, nel voler riscoprire e vivere la radicalità evangelica, dentro la società contemporanea. Mi pare, che si continui a vivisezionare il Vangelo, alla ricerca dei suoi tratti “materni”; mentre vengono continuamente occultati quelli del codice paterno, legati alle scelte ed alle consapevoli rinunce.
D’altro canto, per non degenerare nei soliti discorsi retorici sulla condizione giovanile, basta una rapidissima carrellata in quel che resta delle Comunità cristiane.
Tutti siamo maestri nel denunciare la sostanziale insignificanza e irrilevanza delle nostre Liturgie. Però, appena approfondisci l’argomento, ti accorgi che le critiche riguardano normalmente la parte meno importante della Liturgia, ovvero la predica; dando per scontato che il resto sia incomprensibile per i comuni mortali. Però, se un povero prete cerca in qualche modo di ridare senso e significato all’insieme della Celebrazione, la prima domanda che sorge è: “Ma quanto dura? Quanto tempo ci ruba tutto ciò”.
Più o meno la stessa dinamica si verifica sulla questione biblica. Non sarò certo io a dimostrare la sostanziale ignoranza delle Scritture, che interessa la maggioranza dei credenti. Però, se qualche amante delle Scritture volesse costruire dei percorsi per imparare a leggere e giudicare la realtà alla luce delle Scritture, quanti dei suddetti “credenti” vi aderirebbero? E la motivazione addotta a tale desistenza normalmente è: “Sarebbe bello, ma non abbiamo tempo”. E sì, ormai la Parola di Dio val meno di una gita sulla neve!
Per non parlare della solita Carità, che sarà pure l’unica realtà a sopravvivere oltre la morte, ma qui ed ora lasciamola alle solite quattro passionarie della Caritas, sempre più ridotta a S. Vincenzo. E se ne guardi bene il malcapitato prete, che volesse collocare nella Messa le situazioni di povertà e di oppressione della parrocchia! Meglio per lui legarsi una pietra da macina al collo e gettarsi nel lago!
E così “la Sapienza continua ad essere riconosciuta giusta per le opere che essa compie”…
Pe. Marco