La globalizzazione – e la fine delle diffidenze della Guerra Fredda favoriscono la solidarietà con persone lontane. Questo amore per il distante sembra promosso anche dalle comunicazioni elettroniche e dai viaggi più facili. Ma quello che amiamo così è spesso un’astrazione, e chi ne paga il prezzo è l’amore per il prossimo richiesto per millenni dalla morale giudaico-cristiana. Come in un circolo vizioso, questa tendenza si salda con l’indifferenza per il vicino prodotta dalla civiltà di massa e dalla scomparsa dei valori tradizionali. E come nel momento in cui Nietzsche proclamò la “morte di Dio”, siamo alla soglia di un territorio radicalmente nuovo. Dove la morale dell’amore non è più possibile per mancanza di oggetto.
La società occidentale contemporanea tiene lontana l’immagine della morte, rimuove il pensiero che la vita abbia una fine, crea una popolazione inconsciamente convinta della propria immortalità.
“Tutti dovete morire” recitava Totò, ecco, tutti voi “altri”
Abbiamo parlato di questo raccontandovi altri saggi, ma qui vogliamo sottolineare – prendendo spunto dai temi trattati in questo libretto, piccolo ma denso (oserei dire avvincente) – che di alcune morti siamo più consapevoli di altre perché ne abbiamo testimonianza quotidiana. Le morti sul lavoro, ad esempio, o quelle dei migranti, che vediamo sparire nelle acque del Meediterraneo senza scomporci, senza indignarci, senza soffrire…
“Fino a poco tempo fa l’Italia, paese senza tradizioni immigratorie, accoglieva gli stranieri come visitatori, più che come immigranti. La diversità, non essendo frequente, insegnava qualcosa di nuovo […] Oggi gli immigranti giungono per mare su imbarcazioni che sono praticamente relitti. Tuttavia, vengono sempre meno percepiti come viaggiatori e sempre più come invasori”.
Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri: quello vicino (“distanza dal vicino, vicinanza dal lontano”).
Le distanze che la globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. Per non parlare di chi entra in quello che consideriamo il nostro spazio vitale (sul quale i sociologi dibattono da decenni) cercando di trovare una solidarietà che sembra essere sempre meno possibile.
“Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. – scrive lo psicoanalista Luigi Zoja – L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i morti causa turbamento.”
Complesso in questo senso il rapporto con l’alienazione, un tema di cui, rispetto a tempi precedenti, “si parla meno perché è ovunque. Non è più solo nella struttura produttiva, ma in quella della società, dove nessuno più è prossimo. Se tutti sono distanti, sono distanti da dove? Non esiste più un punto da cui si sono allontanati”.
E torniamo alla morte, con cui abbiamo iniziato, leggendo alcune considerazioni di Zoja in merito.
“Da sempre si dice che l’uomo è uomo anche perché ha un rapporto con la morte diverso dagli altri animali. Quando muore il suo simile, l’animale si ferma accanto al corpo solo finché è caldo. L’uomo, a qualunque civiltà appartenga, compie riti e seppellisce il morto. In qualche modo, per lui il morto continua a vivere.
Ma a quest’antica coscienza i tempi ne stanno sovrapponendo una nuova. Eravamo diventati umani accorgendoci che anche i morti sono vivi. Diventiamo post-umani – o qualcosa che è altro dall’umano – quando cominciamo a convincerci che anche i vivi sono morti. I vivi – la maggior parte dei vivi – sembrano aver smesso di vivere da un tempo che, quando ce ne accorgiamo, ci appare immemorabile: che non è, quindi, una conseguenza del nuovo secolo. La maggioranza dei giovani non ha ancora cominciato a vivere. La maggior parte degli altri – non solo gli anziani, anche i quarantenni – pare irrigidirsi in un rigor mortis psichico, che contrasta con l’agitarsi fisico. Non pensano pensieri autonomi. Non si interessano agli uomini che hanno vicino, non per malvagità, ma perché non li capiscono.
In una certa misura, questo avveniva in ogni epoca. Ma era più difficile vederlo riprodotto sui grandi pannelli della vita e restarne ipnotizzati: era quindi più facile continuare a essere società e umanità. Gli obblighi reciproci, la pietà, la compassione, circolavano. Potevano continuare a esistere e, a volte, a esser creduti amore. Da quando il mondo si è fatto laico, e ogni cosa ha perso l’incanto divino ed è diventata misurabile, gli atti ripetitivi degli altri non sono più considerati rito – presenza di un contenitore universale – ma isolata nevrosi, ossessività, rigidità cadaverica.
Il prossimo si è trasformato in lontano, uscendo dallo spazio. E il vivo in morto, uscendo dal tempo.
Ma dove nasce questa sensazione ? È sensazione o proiezione? Inerte è l’osservato o chi osserva? Il mondo si rinnova a una velocità senza precedenti e non riconosce se stesso. Lo sguardo sente la distanza ma non sa se è nell’occhio o nel mondo osservato.