Probabilmente non a tutti risulterà chiaro il riferimento cinematografico di questo titolo; pertanto
dichiaro fin dall’inizio, che la mia fonte d’ispirazione è stata un film abbastanza famoso degli anni
’70 “La classe operai va in Paradiso”, nel quale si cercava di mettere a tema il salto di qualità del
movimento operaio, che era passato dalle mere rivendicazioni salariali a quelle legate alla qualità
del lavoro.
Questo riferimento cinematografico mi è venuto alla mente, dopo aver concluso una telefonata
interessante. Infatti, mentre stavamo mettendo a fuoco la cosiddetta “zona grigia” del problema
abitativo, ovvero le famiglie che guadagnano dai €12.000,00 ai €25.000,00 circa, ad un certo
punto, né io né la mia interlocutrice, sapevamo come indicare questa fascia sociale; fu così che lei
disse: “Sì beh, la classe media…”. Al che ho avuto una reazione istintiva, pensando a quali e quante
fasce di reddito si autodefiniscono “classe media”. Infatti, qualsiasi famiglia, che guadagna attorno
ai €80.000,00 e anche più, difficilmente si autodefinirà “ricca”; normalmente si autodefinisce di
classe media. Eppure, quale differenza di condizioni di vita tra le due tipologie di famiglie! Per
questo motivo, non trovando definizione migliore per quella conversazione, convenimmo di usare
la tanto vilipesa definizione “classe operaia”, o classi popolari, senza ulteriori distinzioni, o
precisazioni.
Confesso che da quella telefonata non riesco a togliermi dalla testa una domanda: perché è stata
fatta questa epurazione linguistica? Ovvero, che cosa ha portato ad eliminare dal nostro lessico
quotidiano questi termini? Probabilmente le cause sono state molteplici, come spesso succede di
fronte ai fenomeni socioculturali; pertanto non mi arrischio a formulare ipotesi azzardate.
Purtroppo l’unica tragica annotazione, che mi viene da fare, è che gli stessi membri della classe
operaia se ne guardano bene dall’identificarsi in questi termini.
Forse a qualche lettore queste premesse sembreranno questioni di lana caprina. In realtà la posta
in gioco è molto seria, oltre che drammatica. Infatti, la specificità degli umani, rispetto ad ogni
altra creatura, è quella di saper “nominare la Realtà”. Come c’insegna la miglior linguistica e ancor
prima la Sacra Scrittura, quest’azione del nominare è ben più di un attaccare delle “lettere alle
cose”, dell’associare un insieme di lettere e suoni alle cose. Per esempio, se dell’Africa nomino
solo le guerre e le carestie, mentre non nomino tutto il bene che lì si fa, ne risulta che l’Africa nella
testa degli occidentali è la terra delle guerre e delle carestie.
Analogamente per la classe operaia, se viene eliminata dal vocabolario, ne risulta che chi ne fa
parte scompare dal dibattito pubblico, ovvero dal dibattito socio politico. Così succede, che sulla
questione dell’abitare, in Italia si fa fatica a fare emergere le esigenze di queste milioni di persone,
che lavorano dalla mattina alla sera, ma di fatto non hanno più canali dove dire i problemi che li
attanagliano.
E’ a causa di questo processo in atto che, durante un confronto su questi argomenti, qualcuno ha
pensato bene di citare l’esempio della sorella di classe media, che vorrebbe venire ad abitare in
centro Lecco, ma non può permetterselo. Certamente anche questo è un problema, ma di status
non di sopravvivenza… Oppure, l’alternativa è fare carte false per essere riconosciuti come una
fragilità sociale, per aver diritto ad una casa Aler. Ma da quando un operaio di bassa qualifica è
una fragilità sociale? Io sono cresciuto pensando che fosse una risorsa per il nostro Paese!
Sarebbe interessante verificare in che misura i figli della classe operaia entrano a comporre i
famosi NEET (i giovani che né studiano, né lavorano). Ho il vago sospetto che siano la fetta più
consistente. Nel qual caso sono il segno inequivocabile, che hanno appreso la lezione. Infatti, sentendo continuamente dire che le loro famiglie sono fragili e rappresentano un problema per la
società, hanno pensato bene di assumere fino in fondo tale ruolo.
Infine, per completare il quadro della situazione, penso sia evidente a tutti, che questa fascia
sociale è sempre più composta da migranti e figli di migranti; ovvero persone poco avvezze ad
organizzarsi per rivendicare i loro diritti fondamentali, sia per cultura che per paura di eventuali
ritorsioni razziste; in altre parole persone obbligate a sopportare nell’anonimato e nel silenzio
condizioni di vita decisamente indegne.
Da qui la grande sfida per questo nostro tempo, sia in Italia che in tutto l’Occidente: come ridare
voce e dignità a questa classe sociale, che è la base delle nostre società avanzate? Come far sì che
possa esprimersi proficuamente nel dibattitto pubblico, senza doversi consegnare alle seducenti,
quanto vuote, illusioni populiste?
Pe. Marco