Confesso che mi metto a scrivere questa riflessione con molte remore e con molti dubbi, perché è troppo alto il rischio di ridurla all’ennesimo fiume di parole. D’altro canto un mio carissimo amico, spesso mi ricorda, che noi possiamo comprendere la realtà solo raccontandocela continuamente.
Altra premessa che devo fare è che nel conteso di questo scritto la parola integralista sarà intesa nel senso vulgato e non etimologico del termine, ovvero come sinonimo di “violento, irrazionale”.
Detto ciò non mi perderò nell’analisi e nella giustificazione del titolo, volutamente provocatorio, perché ciò che mi sta a cuore è altro.
Innanzitutto vorrei essere chiaro: in nessun momento e per nessun motivo, mentre elaboravo queste riflessioni, mi è mai passato per l’anticamera del cervello di giustificare tutte le forme di violenza degli integralisti islamici. D’altro canto, in questi giorni ed anche in momenti meno drammatici, mi sono sempre chiesto: che cosa passa nella testa di uno qualsiasi di questi miliziani? Non tanto dei leader, ma di uno qualsiasi di loro? Perché i loro capi fanatici, né più né meno di uno qualsiasi dei nostri leader xenofobi, perché hanno tanta presa sul giovane qualunque del variegato mondo arabo? Quali sono le parole chiave e i concetti prevalenti, ovvero le sintesi ideologiche del reale, sulle quali si fa leva per arringare questi giovani e meno giovani?
In molti hanno insistito sulla questione della povertà e dell’ignoranza, quali ambienti fecondi per questo tipo di degenerazione. Condivido appieno questo tipo di lettura; d’altro canto non posso non ricordare che la violenza verbale e ideologica del Bossi degli anni d’oro, per nulla inferiore a quella dei califfi di turno, ebbene, quella violenza prese corpo e diede frutti rigogliosi in una delle regioni più ricche ed “avanzate” d’Europa e del mondo… Oltretutto, pur non essendo un esperto in materia, nei vari slogan dei miliziani, difficilmente appaiono riferimenti sociali o economici (del tipo: l’Occidente ci ha ridotto alla fame, o toglie il futuro ai nostri giovani etc…).
Una delle poche certezze acquisite nella mia vita é che la violenza fisica è direttamente proporzionale al senso d’inferiorità e d’impotenza che un individuo o una cultura stanno vivendo. Certamente mi sento di dire che quanto più grande è l’inferiorità o la minaccia vissuta o percepita, maggiore sarà la violenza fisica, materiale, scatenata per far fronte a quella che è percepita come un sinonimo della morte (quella minaccia, che non capisco e non riesco a gestire, può uccidermi, ergo mi difendo con le risorse che possiedo, ovvero la violenza fisica).
Io non sono mai stato in un paese arabo; posso solo vantare due mesi passati nel nord del Kenya in una regione a prevalenza mussulmana. Dico questo perché quanto verrò dicendo potrebbe essere totalmente errato. Ciò nonostante la mia percezione dei messaggi lanciati dai vari miliziani è che questa guerra contro l’Occidente è per difendersi dalla violenza occidentale; ma badate bene, la violenza occidentale non sono innanzitutto gli F35 americani o Guantanamo o quant’altro del genere. Prima e più ancora che tutto ciò è la violenza della cultura occidentale, che spaventa e fa perdere il controllo di sé al cosiddetto “mondo arabo”. L’attuale violenza “islamica” a me pare sia la reazione di chi sente la minaccia della violenza “occidentale” e non sa come reagire ad essa. Ho messo volutamente tra parentesi sia islamica che occidente, perché credo che né l’uno , né l’altro possano essere ridotti al loro aspetto violento.
D’altro canto c’è una violenza del nostro sistema socio-culturale, che noi stessi soffriamo quotidianamente, alla quale, però, non abbiamo la capacità o il coraggio di ribellarci. È la violenza del sogno del “self made man”, che, in teoria sarebbe disponibile a tutti; è la violenza della moda e delle mode; è la violenza delle necessità indotte, che ci obbligano a sacrifici immani per essere all’altezza degli standard “comuni”; è la violenza dell’eterna giovinezza, coltivata artificialmente a suon di lifting e di viagra; è la violenza dei e sui corpi maschili e femminili, solo per citare alcune dimensioni della nostra violenza occidentale.
Questa nostra violenza mi pare molto ben rappresentata nelle matite esibite ostensivamente in questi giorni, ridicolizzando volutamente la violenza dei kalashnikof; eppure sappiamo benissimo, parafrasando San Giacomo, che “la matita può uccidere più di una spada”. La nostra violenza, la violenza capitalista, la violenza del “sogno americano” è ben più luciferina e ambigua (lux-ferre = portatrice di luce); come Lucifero, infatti, appare con i segnali della luce e della seduzione, salvo poi ridurti in una schiavitù, la nostra, dalla quale non riusciamo più a liberarci, pur subendone tutti gli effetti deleteri. E, perdonatemi l’affondo, forse, paradossalmente, la “loro” violenza è molto più sinonimo di vita della nostra passività, del nostro esserci conformati alla violenza, che subiamo quotidianamente. Nonostante le forme irrazionali usate, ci stanno dicendo che no, non ci stanno ad essere ridotti a meri “animali di consumo”, come ormai noi siamo ridotti.
A me pare che sia esattamente questa dinamica di seduzione e schiavitù ciò che più fa scatenare la reazione violenta del mondo arabo. Esattamente nel percepire istintivamente questa dinamica ed, al contempo, nel non riuscire a fronteggiarla, lì in questa “inferiorità e impotenza” si scatena la violenza, come reazione ed affermazione di sé. Chiaramente questo tipo di reazione, scomposta e irrazionale, non risolve il problema, anzi lo amplifica. D’altro canto il semplice opporsi ai kalashnikof con gli M16, senza un minimo sforzo nel rivedere e disinnescare la nostra violenza, non penso ci faccia evolvere nella soluzione del problema.
Eh sì, perché nel fiume di parole e pronunciamenti di questi giorni, a parte la gamma delle varie manifestazioni razziste e xenofobe, facilmente riconducibili a forme nostrane di integralismo, dicevo scartando a priori questi segmenti di Occidente, anche le anime più belle e pacifiche, il più delle volte, non vanno al di là di un certo paternalismo, invitando “democraticamente” l’Islam a disinnescare la violenza che porta in sé. Certamente sul piano teorico l’invito ha un suo senso; anch’io penso che nell’elaborazione delle varie scuole coraniche, col tempo, si siano coagulate interpretazioni violente del Corano. Ma almeno noi cristiani, non dovremmo evangelicamente aiutarci ed aiutare l’Occidente a smascherare la violenza e le violenze della nostra cultura, ovvero “togliere la trave dal nostro occhio, prima di voler togliere la pagliuzza altrui”?
Per non dilungarmi eccessivamente vorrei solo dar ragione del titolo, apparentemente strano, rispetto a quanto fin qui detto. In realtà la ragione di questo titolo è perché io soffro questa violenza della nostra cultura sulla mia pelle. Eh sì perché l’America Latina, o perlomento il Maranhão, dove vivo, portano ancora in sé i segni di questo scontro tra l’Occidente e culture altre. Vorrei iniziare da un simbolo, che mi accompagna da anni. Nel lontano 1996, durante il mio primo viaggio in terra amazzonica, nella Diocesi di Parentins, in una bellissima giornata di sole, accompagnai il Padre missionario, per celebrare la Messa e alcune Prime Comunioni. Dopo un viaggio favoloso sulla lancia, in una ambiente quasi del tutto incontaminato, arrivammo in quello sperduto villaggio nel cuore della foresta amazzonica. Celebrazione sofferta per il caldo umido infernale, insetti di tutti i tipi e da tutte le parti. Finita la Messa, tradizionale pranzo comunitario e per dissetarci una favolosa… Fanta, da poco acquistata dalla Coca-Cola e ormai divenuta bevanda globale. Trauma: cosa ci fa qui la Fanta? Cosa c’entra con questa realtà? La beviamo o non la beviamo? Questo è stato uno dei miei “battesimi di sangue”.
Se vogliamo stare ai nostri giorni, sono appena tornato da una Messa celebrata tra le case, come è costume nella nostra Parrocchia. La famiglia, che ospita la Messa, offre la cena al prete. Casa semplice, ancora di fango, una delle poche rimaste nella mia parrocchia. Coppia giovane, che vive assieme per una gravidanza imprevista, tanto per cambiare. Lui, giovane di circa 23-25 anni, lavora da qualche mese a Brasilia per sbarcare il lunario; ma quando torna per le vacanze di Natale cosa regala alla moglie? Un IPhone. Tenete conto che nel villaggio non c’è ancora il segnale dei cellulari. In compenso, quando è mancata la luce, è servito per illuminare la casa…
Possiamo metterci a fare un’infinità di discorsi moralistici; ma quando questi sono gli stili di vita del 90% delle persone, i moralismi servono a poco. Vittima o carnefice? Certamente avremmo qualche chiave di lettura in più, se avessimo approfondito le intuizioni di H. Assmann e F. Hinkelammert, quando scrivevano della “Dimensione sacrificale del mercato”, ancora sul finire del secolo scorso; oppure, più recentemente, Miguez-Rieger-Mo Sung, Al di là dello spirito dell’Impero; ma noi, che siamo il “puro frumento” della fede cattolica, non perdiamo tempo a leggere questi “libercoli” della Teologia della Liberazione; che neanche Teologia era per qualche mio illuminato professore.
Di esempi ne potrei fare a decine; ma avendo estrapolato tutti i limiti, vorrei solo citare un’ultima violenza, che mi affligge. È quella riguardante i miei ragazzi e ragazze dell’Infanzia Missionaria. Ragazzi e ragazze “belli”, come lo sono tutti i figli per i loro genitori; e per me sono come dei figli. Mi ammirano, mi rispettano, hanno anche un po’ paura di me. Sempre mi ascoltano con rispetto ed attenzione. Ed io “sogno” con loro e per loro, nel tentativo di dare forma all’Uomo/Donna Nuovi, che Gesù ci presenta. Fanno anche delle belle cose, seguendo il Manuale dell’Infanzia Missionaria. Ma finito il “tempo per Gesù”, eccoli giocati nell’arena di una vita, che li seduce violentemente con le promesse di un piacere “low cost”. E così le ragazzine di 12, 13, 14 anni, che portano stampate nei corpi e nei vestiti “l’obbligo culturale” di essere delle piccole prostitute. Io tento di spiegare loro il rispetto per sé, per poter poi essere rispettate e valorizzate; che i vestiti che indossano, se vestiti si possono chiamare, portano in sé dei messaggi e delle provocazioni. Loro mi ascoltano attente, sorridono per sdrammatizzare la serietà del discorso, ma alla fine…
Sì perché in fin dei conti loro sono pur sempre i “migliori”, perché ancora oscillano e lasciano qualche spiraglio aperto per l’Uomo/Donna Nuovi. I loro compagni e le loro amiche, se già non sono gravide, passano di festa in festa e di avventura in avventura, senza storia, né futuro. E la violenza dei loro corpi e sui loro corpi si fa sempre più subdola e spietata.
Ed io soffro in me questa violenza fatta a questi ragazzi e ragazze. A volte mi viene da piangere, quando silenziosamente spariscono nel vortice di un piacere apparentemente “low cost”, ma che in pochi anni li porterà in una delle tante periferie a lottare per la sopravvivenza. E non posso far niente. Solo mi rimane una rabbia infinita; contro chi?
Volutamente ho citato l’esempio dei corpi delle mie ragazzine, ben sapendo che la questione femminile è forse il tema culturale più caldo nel confronto tra Islam e Occidente. Lungi da me il negare le indubbie conquiste, che hanno portato in Occidente al riconoscimento della pari dignità tra uomo e donna. Ciò nonostante non posso non attestare la sofferenza nel vedere la violenza inscritta dalla nostra cultura occidentale nei corpi femminili, violenza della quale il femminicidio è certamente l’esito più drammatico, ma non l’unico. Rielaborare questo problema, che, pur non essendo esclusivamente occidentale, ha in Occidente dei tratti peculiari, dicevo, rielaborare questo “nostro” problema potrebbe aiutarci a percepire i tratti tipici della violenza occidentale e così aprire degli spiragli di dialogo paritario e non paternalistico, come quello di chi ha sempre e solo da insegnare agli altri.