“Dopo essersi recato per due volte nelle Gallie presso l’usurpatore Massimo, responsabile dell’uccisione dell’imperatore Graziano, Ambrogio ruppe irrevocabilmente la comunione con lui e con quanti si erano resi responsabili, insieme a Massimo, della morte a Treviri dell’eretico Priscilliano.
Ma il presule milanese, in seguito alla strage di Tessalonica, non dubitò di escludere dalla partecipazione ai divini Misteri anche il grande imperatore Teodosio, da lui peraltro profondamente stimato, finché questi non ebbe umilmente eseguita la penitenza impostagli a causa di quella efferata repressione.”
In occasione della sua festa, mi sono riletto, dopo non so quanti anni, la biografia di Sant’Ambrogio, che viene proposta anche per la liturgia. Confesso che, forse, non le ho mai dedicato così tanto tempo e così tanta attenzione. Certamente la mia condizione attuale mi ha quasi obbligato a soffermarmici sopra. L’aspetto che inevitabilmente ha richiamato la mia attenzione è stato il livello di coinvolgimento di Ambrogio nelle vicende storiche, sociali e politiche, del suo tempo. Certamente si possono trovare innumerevoli spiegazioni a questo fatto: dalla sua origine dall’amministrazione dell’Impero Romano, al rimarcare le differenze nella struttura della sua e della nostra società e così via.
Ma noi sappiamo che tutto ciò non annulla la sostanza della mia collocazione, ovvero il Patrono, quindi il modello di riferimento per la nostra Chiesa ambrosiana, ha vissuto in modo eloquente e profetico il suo ruolo di Pastore, assumendosi il rischio e la responsabilità di giudicare gli avvenimenti del suo tempo alla luce del Vangelo. E l’ha fatto, non semplicemente richiamando i soliti “valori non negoziabili”, che poi, a seconda di chi è l’interlocutore di turno, negoziamo maldestramente. No, l’ha fatto, prendendo posizione, esprimendo giudizi, addirittura scomunicando un imperatore, del quale, tra l’altro, aveva grande stima.
Senza alcun riferimento specifico, diretto o velato, al nostro attule Arcivescovo non posso non constatare la grande diversità da Sant’Ambrogio tra i nostri pastori, preti e vescovi, del nostro tempo. Ma su questo aspetto mi fermo qui, perché so che potrei dar vita a discussioni interminabili e profondamente soggettive.
La questione, per me inquietante, è invece il constatare il rovesciamento della situazione e non solo nella nostra Chiesa milanese. Ovvero si è creato tra il clero una specie di “senso comune”, che non è esattamente la stessa cosa del “sensus fidei”, o “sensus fidelium”, al quale fa volentieri riferimento Papa Francesco. Questo senso comune determina che nella predicazione e, peggio ancora nella nostra prassi pastorale, noi sacerdoti e vescovi dobbiamo ben guardarci dal tentare di leggere e giudicare le situazioni e le vicende concrete della nostra storia attuale. Al contrario dobbiamo richiamare i valori evangelici nella forme più generali e astratte possibili, lasciando alle singole coscienze, semmai hanno colto qualche attinenza con la realtà in cui vivono, tirare le debite conclusioni pratico-esistenziali.
Questo “dogma” non vale solamente per le situazioni più concrete e particolari della vita parrocchiale e diocesana, dove certamente è opportuno lasciare alle coscienze individuali il compito del necessario discernimento. Purtroppo è un “dogma” assoluto, che investe tutti gli ambiti della nostra vita reale nei suoi orientamenti di fondo. E la motivazione allegata è che, facendo questa lettura dei “segni dei tempi” e giudicando il presente, finiamo per creare tensioni, conflitti e divisioni dentro la comunità cristiana. A tal punto che, se qualcuno non rispetta questo “dogma” (ed io mi considero uno di questi), viene guardato con sospetto, o relegato tra gli anomali, da accompagnare con particolare attenzione.
In altre parole, ciò che dovrebbe essere la regola: interpretare e giudicare i fatti e gli avvenimenti della realtà alla luce del Vangelo, è divenuto eccezione, se non errore; a tal punto che, chi si assume la responsabilità di coltivare una Chiesa militante e testimoniale viene sopportato con non poca insofferenza, se non messo a tacere dalla propria Chiesa. Certamente qualcuno potrebbe obbiettare che nella Chiesa di Papa Francesco queste tendenze sono molto cambiate; oppure allegare che da altre parti, come in Brasile, la gerarchia è più attenta e profetica nel giudicare la realtà in cui viviamo.
Indubbiamente queste obiezioni hanno un loro fondamento; ma, a me pare, che il sentire prevalente sia ancora quanto vengo dicendo in questo scritto. Tant’è che lo stesso Papa Francesco viene continuamente tacciato di ingenuo e sprovveduto, da vescovi e preti, per il suo continuo esprimersi con chiarezza e franchezza sulle più scottanti questioni dell’attualità.
Per altri versi constatiamo a vari livelli che, il dato prevalente in tutti gli studi sulla Fede e sulla Chiesa attuali, è l’irrilevanza di entrambe per la vita concreta della gente di oggi. Purtroppo questo giudizio è determinato, anche, da latri fattori. D’altro canto, fin tanto che non avremo il coraggio d’ispirarci realmente, non nominalmente, a Sant’Ambrogio e ad altri Santi Pastori come lui, la suddetta irrilevanza dell’azione pastorale della Chiesa non potrà che crescere.
Certamente sarebbe molto presuntuoso da parte mia, in questo semplice contesto, evidenziare le cause della deriva, che ho cercato di descrivere. Vorrei qui, però mettere in luce due elementi, che, a mio parere, sono rilevanti.
Il primo è un malinteso senso del Tempo, della temporalità, della vita terrena, per l’economia della Fede e della Salvezza. Nella coscienza ecclesiale prevalente, di preti e laici, questa vita terrena è fondamentalmente irrilevante, se non un peso, viste le sue innumerevoli contraddizioni e ambiguità. Così, noi consacrati viviamo in una mediocrità diffusa. Conseguentemente non possiamo che rassegnarci al fatto che i laici facciano lo stesso, per non far sì che ci buttino addosso la suddetta mediocrità. Si cerca di fare qualche pratica religiosa, senza ben sapere che attinenza averbbe con la Salvezza Eterna. Il tutto per cercare di aspettare il giorno per varcare la “porta”, che ci faccia vedere cosa c’è “al di là del muro”. In altre parole, forse più evangeliche, la realtà del Regno di Dio, annunciata da Gesù, è qualcosa ancora di molto etereo e indefinito e, comunque, legato più all’al di là, che a questo presente, che stiamo vivendo.
L’altro fattore, che mi pare abbia spinto a questa deriva, è stato il fatto di aver constatato una serie di abbagli presi dalla Chiesa lungo la storia, su quali però era stato chiesto un forte investimento di fede da parte dei cattolici. Pertanto, per non correre il rischio di invischiarsi nuovamente nelle vicende storiche, si preferisce “volare sopra la storia” nel mondo dei massimi sistemi, dove è difficile sbagliare, ma dove è ancor più difficile intersecare la gente reale con i suoi sogni e le sue cadute. Per certi versi è un po’ come la parabola involutiva della figura paterna, che, dopo essere stata confusa per decenni con il patriarcalismo e, come tale, essere stata combattuta, abbiamo finito per confondere la figura padre con quella del più grande amico dei figli; e in questo svilimento la parola d’ordine è: evitare ogni conflitto tra padri e figli a qualsiasi costo. Salvo poi scrivere fiumi di pagine alla ricerca del “padre perduto”.
La vita, senza chiederci se siamo d’accordo o meno, ci obbliga di per sé stessa a scegliere e ad assumerci le nostre responsabilità continuamente. Pensare di non scegliere, o non decidere, significa andare contro la vita, non rispettarla nelle sue leggi fondamentali. Pertanto è comunque e sempre una scelta sbagliata.
Forse è anche per questi motivi che, dai più, attualmente, la vita ecclesiale è vista semplicemente come irrilevante.
don Marco