Il giorno 22 ottobre Gustavo Gutierrez, il fondatore della Teologia della Liberazione, ha incontrato definitivamente il Signore faccia a faccia. Io ho avuto modo di passare una delle ore più importanti della mia vita con lui nel gennaio del 2003. Però, più che questo dettaglio biografico, la mia riconoscenza a lui è infinita, per aver ispirato il mio pensare ed il mio agire secondo il Vangelo. Non sapendo come ricompensarlo, ho pensato bene di offrire degli stralci, presi dalla sintesi di presentazione del suo Dottorato in Teologia. Spero che l’estemporaneità dell’accostamento dei brani non svilisca la densità del pensiero. Buona lettura.
Pe. Marco
Ogni teologia è una parola su Dio. In ultima istanza, il suo unico tema è Dio. Senonché, il Dio di Gesù Cristo si presenta come un Mistero. Da qui la celebre affermazione dì Tommaso d’Aquino: “Di Dio non possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è”.
Ma Dio è al tempo stesso un Mistero che deve essere comunicato, che non deve rimanere segreto, che significa vita per ogni persona. Come trovare allora una via per parlare di Dio? Il Mistero si rivela nella preghiera e nella solidarietà con i poveri: è quello che chiamiamo l’atto primo, la vita cristiana; solo in seguito, questa vita può ispirare un ragionamento, diventando l’atto secondo.
Nel libro che narra gli Atti della prima comunità cristiana, questa riceve varie volte un nome particolare e originale: «la Via». Il termine è usato in forma assoluta, senza qualificativo. Ciò contraddistingue la comunità cristiana in seno al mondo giudaico e pagano nel quale essa vive e da testimonianza. Tale condotta è una maniera di pensare e di agire, «di camminare secondo lo Spirito» (cfr. Rm 8,4).
Bonhoeffer accettava questa sfida e formulava in maniera incisiva la domanda che è all’origine di vari sforzi teologici ai nostri giorni: «come annunciare Dio in un mondo diventato adulto (mündig)?»
Ma in un continente come l’America Latina, la sfida non viene in primo luogo dal non credente, ma dalla non persona, cioè da colui che l’ordine sociale esistente non riconosce come persona: il povero, lo sfruttato, chi è sistematicamente e legalmente spogliato della sua qualità di uomo, chi quasi non sa che è un essere umano. La non persona mette innanzi tutto in discussione non il nostro universo religioso, ma il nostro mondo economico, sociale, politico, culturale; si fa qui sentire una chiamata alla trasformazione rivoluzionaria delle basi stesse di una società disumanizzante. La domanda non sarà allora: in che modo parlare di Dio in un mondo adulto, ma in che modo annun-ciarLo come Padre in un mondo non umano? E che cosa implica il dire ai poveri che sono figli e figlie di Dio? Sono domande che in qualche modo nel secolo XVI interpellarono un Bartolomé de Las Casas e molti altri, a partire dall’incontro con l’indigeno americano.
In altre parole, la domanda che ci si pone oggi in America Latina è questa: come parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente? E in qualche maniera il tema del libro di Giobbe. Possiamo anche affermare che un linguaggio su Dio sorge tra noi in questi tempi a partire dalle sofferenze ingiuste, ma anche dalle speranze dei poveri di questo continente.
Bisogna chiarire che il termine povertà è complesso, poiché c’è la povertà reale, che riguarda la situazione di chi non conta niente, di chi è insignificante, per ragioni economiche ma anche per cultura, lingua, colore della pelle, o perché appartenente al mondo femminile che è tra i più penalizzati. Noi siamo chiari nell’affermare che la povertà non è mai una sola e soprattutto che non mai buona.
Si può dire che negli ultimi decenni la vita e la riflessione della Chiesa nel contesto latino-americano sono contrassegnate da ciò che possiamo chiamare l’irruzione del povero. Si vuole con questo affermare che coloro che erano finora «assenti» dalla storia si fanno a poco a poco «presenti». Questa nuova presenza dei poveri e degli oppressi si fa sentire tanto nelle lotte popolari per la liberazione, come pure nella coscienza storica che ne deriva.
II popolo povero che fa la sua irruzione nella nostra storia è un popolo al tempo stesso oppresso e cristiano. Tra i continenti che vengono solitamente chiamati il Terzo Mondo, l’America Latina è infatti l’unico che risulti per la maggior parte cristiano. Situazione particolarmente dolorosa, che costituisce anche una grave provocazione per la Fede cristiana e per la Chiesa. Si tratta di due aspetti – oppressione e cristianesimo – di un unico popolo. Ciò significa che non si può; come alcuni vorrebbero, tener conto di un aspetto senza collegarlo all’altro. Il carattere cristiano del popolo latino-americano è marcato dalla condizione di oppressione in cui vive; inversamente, la sua Fede suggella l’esperienza dell’ingiustizia di cui è vittima, come pure la ricerca delle vie per liberarsene. Questa affermazione non abolisce la differenza esistente tra queste due dimensioni, vuole invece sottolineare come si presentino nella sua vita concreta.
Adottare questo punto di vista significa, di conseguenza, opporsi a ogni tipo di «riduzionismo». Questa cosa è stata, fin dagli inizi, una preoccupazione della Teologia della liberazione: respingere sia uno spiritualismo disincarnato, che accentua il versante religioso del popolo senza tener conto delle condizioni materiali della sua vita, sia un’attività politica che rimanda a più tardi le esigenze e possibilità della fede cristiana, perché le questioni economico-sociali sono considerate più urgenti. Si tratta tuttavia di tendenze persistenti (cfr. Puebla 329); per questo l’Istruzione mette in guardia contro la «tentazione di ridurre il Vangelo della salvezza a un vangelo terrestre» (VI, 5, cfr. pure VI, 4), però precisa che questa osservazione non deve essere presa come una approvazione di coloro che favoriscono la miseria dei popoli (XI, 1).
La povertà cristiana, espressione d’amore, è solidale coi poveri ed è protesta contro la povertà. Questo è il significato concreto e attuale che rivestirà la testimonianza di povertà vissuta non per se stessa, ma come un’autentica imitazione di Cristo, che assume la condizione di peccato dell’uomo, per liberarlo dal peccato e da tutte le sue conseguenze.
La conversione significa uscire dalla propria strada (cfr. Lc 10,25-37) per entrare nella strada dell’altro, del prossimo, in particolare del povero in cui incontriamo il Signore (cfr. Mt 25,31-46). È anche la condizione di un operare teologico profondo. Entrare nel mondo del povero è un processo lungo e talvolta penoso, ma è lì che incontriamo Colui sul quale la teologia è chiamata a dire una parola. Oltre che difficile, tale processo include dei rischi, dato che questa parola, che è un parlare del Dio della vita, significa lanciare una sfida, radicale, a una realtà che porta impresso il marchio della morte e dell’ingiustizia.
Lo «scandalo della croce» illumina la realtà della morte ingiusta di tante persone in America Latina. Essa rende infatti più acuto il contrasto tra questa situazione di morte e il dono della vita in Cristo. Nella drammatica narrazione del processo di Gesù offertaci dal Vangelo di Giovanni, vediamo Gesù stesso passare a poco a poco da accusato a giudice (cfr. Gv 18-19). Nella teologia giovannea la croce si trasforma così in trono per questo «Uomo» che si identifica con i poveri di questo mondo (cfr. Mt 25,31-46) e che è al tempo stesso re. Re di un Regno di vita, proprio l’annuncio della vita lo espone alla persecuzione e lo conduce alla morte in croce: Regno che il Padre suggella con la vittoria sulla morte, nella risurrezione di Gesù.
Per questa ragione, poiché il dono della vita ci porta al rifiuto della morte ingiusta, il motivo ultimo di quella che viene chiamala «opzione preferenziale per i poveri» sta nel Dio in cui crediamo. Possono esserci altre ragioni valide, come l’entrare oggi in scena dei poveri, l’analisi sociale di tale situazione, la compassione umana, il riconoscimento del povero come protagonista della propria storia. Ma, a dire il vero, il fondamento di tale impegno per il cristiano è teocentrico. La solidarietà con i poveri e gli oppressi si basa sulla nostra fede in Dio, nel Dio della vita che si rivela in Gesù Cristo.
II Dio annunciato da Gesù Cristo è il Dio la cui chiamata si presenta universale, indirizzata a ogni persona umana, ma è al tempo stesso un Dio che ama con amore di predilezione i poveri e i diseredati. L’universalità non solo non si oppone a questa preferenza, che – come dice la parola -non è esclusività, ma la richiede per precisare così il proprio senso. A sua volta la preferenza trova il suo orizzonte nella chiamata che Dio rivolge a ogni essere umano. Questa duplice esigenza di universalità e di preferenza è una provocazione per la comunità dei discepoli del Signore. È questo il luogo esplicito e autentico di quella che Giovanni XXIII chiama la «chiesa dei poveri», in quanto vocazione di tutta la Chiesa; su di essa hanno in seguito insistito Medellìn, Puebla e Giovanni Paolo II (cfr. pure Istruzione IX, 9).
Per ciò stesso non si può identificare la venuta del Regno con le realizzazioni storiche della liberazione umana. La crescita del Regno è un processo che si attua storicamente nella liberazione. Esso va però oltre tutto questo. Non ci troviamo di fronte a una identificazione. Senza avvenimenti storici liberatori non si ha crescita del Regno; ma il processo di liberazione distruggerà le radici dell’oppressione, dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, solo con l’avvento del Regno, che è innanzi tutto un dono. Si può anzi dire che il fatto storico, politico, liberatore, è crescita del Regno, è avvenimento salvifico, ma non è la venuta del Regno, non è la salvezza totale. È una realizzazione storica del Regno, e in quanto tale è anche annuncio della sua pienezza: sta qui la differenza (cf. Documento 50-53).
Celebriamo questa vita nell’Eucaristia, che è il compito principale della comunità ecclesiale. Nello spartire il pane, facciamo memoria dell’amore e della fedeltà di Gesù – amore e fedeltà che l’hanno portato alla morte – e della conferma della sua missione nei riguardi del povero attraverso la Risurrezione. La frazione del pane è al tempo stesso il punto di partenza e il punto d’arrivo della comunità cristiana. Si esprime in essa la comunione profonda al dolore umano, provocato spesso dalla mancanza di pane, e si riconosce nella gioia il Risorto che da la vita e solleva la speranza del popolo convocato dai Suoi gesti e dalla Sua parola.
La Teologia della liberazione cerca – in comunione ecclesiale – di essere un linguaggio su Dio. È uno sforzo per rendere presente nel mondo dell’oppressione, dell’ingiustizia e della morte, la Parola della vita.
Gustavo Gutierrez