Il testo evangelico, che ci viene proposto per questa domenica (Mt 21,33-46), riporta drammaticamente alla ribalta il ruolo e l’importanza della nostra Libertà.
Secondo il Vangelo di Matteo, Gesù ha concluso il suo viaggio dalla Decapoli fino a Gerusalemme. Ha da poco fatto il “suo” ingresso messianico cavalcando un asinello e si appresta a giocare la sua partita finale. Per questo motivo, da qui in avanti, Mt raccoglie una serie di discorsi e di parabole escatologiche, ovvero interventi volutamente provocatori e ultimativi, con lo scopo di suscitare una risposta nei suoi riguardi da parte di Gerusalemme e soprattutto delle sue autorità. I toni forti e provocanti dei suoi interventi non vanno intesi come atti di condanna, bensì come ultimo ricorso retorico, linguistico, simbolico, nell’auspicio d’innescare un percorso di conversione e dunque di accettazione del suo Vangelo.
Purtroppo, anche ai nostri giorni, mi capita di ascoltare interpretazioni semplicistiche e accomodanti di questa parabola, quasi fosse una mera spiegazione del come è avvenuto il rifiuto di Gesù da parte dell’ebraismo. Mentre noi no. Noi, che addirittura portiamo il suo nome, siamo da sempre e per sempre dalla sua parte. Noi che lo abbiamo riconosciuto come Figlio di Dio e lo proclamiamo tale, noi abbiamo fatto quanto dovevamo fare. Dunque siamo a posto. Né più, né meno, che come domenica scorsa, quando molti hanno preferito ridurre il gesto di Gesù ad un momento di stizza verso dei mercanti un po’ troppo invasivi. Bontà loro… Chi medita e scava continuamente nei testi biblici, sa che la Parola di Dio è una miniera di nessi e connessioni, che vanno ben al di là della prima superficiale impressione.
Nella parabola di oggi Gesù certamente rilegge la storia d’Israele. Questo popolo ha avuto in dono una Parola, grazie alla quale avrebbe potuto fare la differenza, essere differente, essere un popolo diverso, pur essendo uno tra i più piccoli popoli della Terra. E la differenza non stava semplicemente nella questione formale del nome di Dio. Certo anche il nome di Dio ha la sua importanza. Ma mai le Scritture legittimano qualsiasi prassi, purché operata in nome di JHWH.
Semmai è esattamente il contrario. Chi si fregia di quel nome e pretende operare in sintonia con Lui, dovrà identificarsi per una prassi radicalmente ispirata alla sua Legge. E la Legge nel suo nucleo originario non ha altro scopo, che creare una società giusta e fraterna; radicalmente alternativa alle strutture oppressive egiziane. Una società nella quale l’orfano, la vedova e il povero avrebbero ricevuto un occhio di riguardo.
Invece, Israele non ha prodotto i frutti sperati. Anzi, a parte il tetragramma per nominare Dio, è divenuto un popolo come gli altri popoli.
Da qui l’ammonimento di Gesù, che non fa che rendere noto a tutti il procedere del Padre: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”.
La vicenda della Chiesa, nata dall’abbandono di ogni riferimento etnico, geografico, culturale, porta alla luce il carattere drammatico di queste parole. Solo la passione e la tensione nell’incarnare quotidianamente il Vangelo ci introduce nel Regno di Dio e ce ne fa gustare i frutti.
A partire da queste parole di Gesù, nessuno potrà illudersi di essere dei “suoi” semplicemente per qualche riferimento formale a Lui. Nessun simbolo, nessuna devozione, nessuna tradizione ci autorizza a dirci dei “suoi”. Solo un discepolato, che cerca ogni giorno di calcare ed incarnare le orme del Maestro, questo dirà di chi siamo e a chi apparteniamo.
Con la sorprendente sorpresa di molti compagni di viaggio, che senza conoscere Lui, stanno già lottando al nostro fianco per far crescere il suo Regno.
Che Buona Novella!
Pe. Marco