“Non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo, ma, rispetto a quello che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale”.
Poi Aaron Bushnell, militare Usa di 25 anni, si è cosparso di un liquido infiammabile, ha posato il telefonino e si è dato fuoco. Mentre si stava immolando davanti alla sede dell’ambasciata israeliana a Washington e le fiamme lo circondavano, urlava “Free Palestine”. Non mancheranno i dotti e i sapienti che definiranno questo gesto “follia” o, peggio, “diserzione”. Per noi resta gesto ultimo che, come altri nella storia, come quello di Jan Palach, urla contro l’inerzia del mondo spettatore della morte inflitta a decine di migliaia di persone in base alla loro appartenenza etnica. Forse è proprio questo senso di colpa che ha rimosso in fretta la notizia dai titoli dopo averla somministrata quasi fosse solo informazione di servizio. C’è un sistema in grado di spegnere in fretta le fiamme e considerare uno scarto la vita di un giovane. Ma il gesto rimane. Il nome di Aaron Bushnell è destinato a restare come un segnale stradale che ci indica un’altra strada rispetto al vicolo cieco (ma anche sordo e muto). È la via di una solidarietà estrema che arriva a metterci il proprio corpo, la propria vita.