Meditando sulle letture di questa domenica ed apprestandomi a scrivere queste quattro riflessioni, mi ritorna alla mente una domanda persistente: chissà se i “selezionatori” di queste letture hanno percepito la loro portata devastante. E, conoscendo gli orientamenti della maggior parte dei liturgisti, la domanda non è fuori luogo… Infatti, la sensazione è che i testi siano stati scritti per sviluppare il parallelismo Mosè-Gesù e la logica di fondo è: benché Mosè sia stato il Liberatore e Fondatore di Israele, Gesù è molto di più, lo supera a tutti i livelli. Lo schema dei “nostri” cari liturgisti non sembra però funzionare, soprattutto perché la scelta del testo evangelico è alquanto problematica, per poter celebrare la nostra supremazia cristiano-cattolica. Infatti, questo brano di Giovanni, pur avendo espliciti riferimenti a Mosè, va ben oltre, fin troppo oltre, lo schematismo fin qui presentato. Per questo motivo, noi che apparteniamo al Nuovo Testamento, preferiamo partire dal Vangelo, da Gesù, per poi interpretare il resto.
Ecco allora che, se vogliamo partire dal testo evangelico, preferisco iniziare citando un Maestro, molto più interessante dei nostri cari liturgisti: il Card. Martini, il quale, a proposito di questo cap. 5 di Giovanni, solea dire che è una delle pagine più difficili, perché tra le più dure, di tutta la Bibbia. Prima di soffermarci sui singoli versetti, penso non guasti ricordarci, che il Vangelo, nonostante tutti i suoi riferimenti storici, non è stato scritto per ricordare, o rendere onore a personaggi del passato. Innanzitutto il Vangelo, in generale, si rivolge ai suoi lettori, attuali e futuri; vuole essere una luce, una Buona Novella, per “l’uditore e l’ascoltatore” di tutti i tempi e così rispondere alle sue domande ed alle sue inquietudini.
Ho fatto queste annotazioni, per collocare nella giusta prospettiva queste sentenze drammatiche di Gesù, che non sono, né possono essere, ridotte a delle risposte date ad alcune persone concrete. In altre parole il dramma, che Gesù smaschera e fa venire alla luce, non può e non deve essere riferito a quei casi specifici, a persone concrete, con le quali aveva a che fare.
Ecco allora che “i Giudei” non sono soltanto delle figure storiche del suo tempo. Come ben sappiamo dagli studi giovannei più accreditati, “i Giudei” rappresentano una deformazione paradossale della coscienza credente, del credente di tutti i tempi e di tutte le latitudini.
In questo senso questi versetti, così come tutto il cap. 5, mettono a nudo, fino scarnificarla, la dialettica drammatica tra: il credente-discepolo e il credente-giudeo. Prima di mettere a confronto queste due tipologie, è bene ricordare che siamo di fronte a due modi di “credere”. Quindi il confronto non è tra chi crede e chi non crede, tra credenti ed atei, tra cristiani e comunisti, come si diceva un tempo e qualcuno, ahimè, dice tuttora; forse per non prendere coscienza del dramma, che si sta consumando tra di noi, credenti cristiani. Ma che cosa differenzia questi due modi di “credere”? È perché Gesù si preoccupa tanto da usare questi toni così drammatici?
In realtà la preoccupazione è più che fondata, perché il credente-giudeo è colui che, impercettibilmente ed inconsapevolmente, rinchiude la Rivelazione di JHWH in uno o più eventi del passato. Non importa se questo evento è un fatto storico, una legge, un miracolo, una tradizione, un culto, o addirittura una persona. Ciò che vale è cogliere il dinamismo soggiacente. Ovvero, il credente-giudeo, forse per paura di fronte alla complessità della vita, forse per eccessiva fiducia in sé stesso, aderendo a questo processo appena descritto, pone fine alla Rivelazione, impedisce a JHWH di continuare a parlare. Infatti lui si fa depositario, difensore di quella rivelazione, relegata in un passato remoto ed ora lui, il credente-giudeo, si sente investito da una missione: quella di essere giudice ed arbitro della vita e della storia, determinando ciò che è, o non è, secondo quel mito, che lui ha costruito nella sua coscienza. In altre parole, quando in ciascuno di noi prevale il credente-giudeo, non siamo più in grado di ascoltare e riconoscere i segni della Presenza e della Parola di JHWH oggi, qui ed ora.
Il credente-discepolo, invece, è colui che ha ben chiaro e mantiene ferma la differenza di fondo tra noi ed il Signore.
Dove la differenza non sta tanto, o solo, a livello morale: Lui comanda e noi dobbiamo ubbidire. Innanzitutto la differenza tra noi e JHWH sta nella Sua trascendenza, per la quale noi non potremo mai conoscerlo, possederlo, dominarlo, anche solo concettualmente. Lui è e sarà sempre “al di là” di ogni nostra rappresentazione, o esperienza di Lui. Pertanto il credente-discepolo riconosce sì i segni della presenza e del passaggio di JHWH nella vita e nella storia, ma non si blocca e non si fossilizza su di essi; non ne fa motivo di vanto, o di orgoglio, qualora lo avesse incontrato sulle strade della vita. Certamente guarda con fiducia il futuro, certo di questa Presenza amorosa e provvidenziale; ma sa anche che ogni mattino deve affinare i suoi cinque sensi, fisici e spirituali, per lasciarsi nuovamente sorprendere dalla Sua Presenza, misericordiosa e giusta.
Se qualcuno è giunto a questo punto ed ha capito poco, o è abbastanza disorientato, mi permetto di chiedergli uno sforzo in più per capire, esattamente perché nessuno di noi, soprattutto se ci consideriamo credenti, è esente da questa alternativa.
Per non ripetere i soliti esempi, o per non dilungarci in una “Storia del credente-giudeo”, mi basti qui citare la grande investita dei nuovi credenti-giudei contro il credente-discepolo più significativo di questo tempo: Papa Francesco.
Fermo restando che le accuse a lui rivolte circa gli abusi sessuali sono evidentemente pretestuose, possiamo capire la veemenza e la spregiudicatezza delle accuse, esattamente perché tutto il suo pontificato sta riportando alle sue radici la coscienza credente, attraverso il riconoscimento della Presenza Misericordiosa del Signore nelle nostre vite e della Sua azione instancabile perché sia resa Giustizia ai poveri ed agli esclusi di oggi. Ma oggi, come allora, il credente-giudeo non vuole accettare che JHWH, in carne ed ossa, lo incontri, lo chiami, lo interpelli, gli chieda di amare, come Lui ama.
Pe. Marco