Poveri cristiani», questo il commento di una donna anziana di Lampedusa (e la dice tutta) che ascolta la radio locale mentre dà notizia di una nuova strage di immigrati in mare. Sono, infatti, migliaia le vittime che negli ultimi vent’anni hanno perso la vita nel Mediterraneo alla ricerca di un sogno, di una speranza a cui aggrappare la loro esistenza.
Un amaro spettacolo che Gianfranco Rosi (Leone d’oro a Venezia con «Sacro Gra» nel 2013) ha voluto assistere, stabilendosi sull’isola per oltre un anno, al fine di restituircelo attraverso la storia di Samuele. Un sereno microcosmo fatto di genuinità e semplicità, in cui il dodicenne, circondato dall’affetto del padre pescatore e della nonna, vive quasi in maniera inconsapevole del dolore che gli gira attorno.
Proprio attraverso questo «felice» parallelismo si gioca «Fuocoammare», fresco d’Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino. Senza giudizio e senza voyeurismo il film ha il potere di documentare ciò che accade dentro un paesaggio di una rara bellezza e dietro le ombre nascoste di una società che fa finta (o non vuole) di non vedere. Un po’ come «l’occhio pigro» del ragazzo che, dopo l’esame oculistico, è costretto a bendare per poter esercitare l’altro e mettere ben a fuoco il mondo circostante. Perché così capita, purtroppo spesso, a noi spettatori attoniti che, seduti in sala (o davanti alla tv), mentre guardiamo lo schermo, sebbene ci domandiamo come è possibile fermare, non riusciamo a cogliere del tutto questo irragionevole dolore. Eppure è la stessa umanità che ci accomuna: ci sono persone, volti, storie simile a noi. Ci sono bimbi, donne incinte, giovani simili ai nostri e a quelli di Samuele che seppure vive «in mezzo al mare» ancora non riesce a sopportarne i moti ondosi. Rosi ci riporta così, ancora una volta, non solo davanti, ma dentro la cruda realtà. Lo fa però con maestria; non ce la sbatte in faccia, ci lascia piuttosto la libertà di farci o meno coinvolgere (ma con che coraggio si può oggi rimanere freddi?) dalla verità dei fatti. Il suo è un cinema che ci interpella e chiama in causa la nostra coscienza, come del resto ci ricorda il medico in scena. Un premio, ancora una volta, meritato perché non ci scordiamo di chi ci chiede aiuto.