L’anno 2018 ha svelato, a cascata, l’insospettata ampiezza degli abusi e delle violenze sessuali commessi da membri del clero cattolico e soprattutto la loro sistematica copertura da parte della gerarchia. La Chiesa cattolica si è così trovata sotto la costante pressione dei suoi stessi fedeli e dell’opinione pubblica.
L’anno 2018 ha svelato, a cascata, l’insospettata ampiezza degli abusi e delle violenze sessuali commessi da membri del clero cattolico e soprattutto la loro sistematica copertura da parte della gerarchia. La Chiesa cattolica si è così trovata sotto la costante pressione dei suoi stessi fedeli e dell’opinione pubblica.
Dopo lo choc delle rivelazioni riguardanti l’Irlanda e gli Stati Uniti, si è appreso che quasi tutte le Chiese occidentali ne erano coinvolte a livello dei loro più alti responsabili: la Chiesa tedesca (1.670 sacerdoti chiamati in causa, 3.677 bambini vittime), quella australiana (7% dei sacerdoti cattolici coinvolti), quella cilena, il cui episcopato si è visto costretto a dimettersi in blocco.
Due cardinali sono stati privati del loro titolo, altri tre costretti a dimettersi (di cui due membri del consiglio ristretto di papa Francesco). E il 23 novembre, proprio a Roma, nella sua Dichiarazione contro ogni tipo di abuso l’Unione internazionale delle superiore maggiori ha deciso di «sostenere denunce trasparenti, a livello civile e penale, delle violenze commesse all’interno delle congregazioni religiose».1
In questo contesto, un’ex suora ha rivelato che la Congregazione per la dottrina della fede aveva mantenuto nelle sue funzioni, dopo un semplice richiamo, uno dei suoi capi ufficio che aveva ammesso d’averla aggredita durante una confessione, sebbene questo dicastero abbia come compito di reprimere questo tipo di abusi in tutta la Chiesa cattolica e sia l’unica istanza autorizzata a farlo.2 È ormai impossibile negare che la crisi sia istituzionale e che si debba intervenire a questo livello.
Data l’estrema gravità della situazione, papa Francesco ha preso due importanti decisioni: mettere fine alla «copertura degli abusi»3 e porre rimedio alle loro cause istituzionali, vale a dire al «clericalismo».4 Tuttavia, di fronte a questi passi, parte dell’opinione pubblica cattolica è a disagio, temendo che la trasparenza faccia il gioco di quei media che percepisce come ostili.
Essa inoltre o non comprende o fatica a riconoscere la dimensione strutturale del problema: vorrebbe far ricadere tutta la responsabilità solo sugli individui – quel 3% di preti deviati, malati e peccatori – che gettano discredito sull’insieme del clero. E deplora l’atteggiamento dei media che attaccano la Chiesa identificata con il solo clero.
La paura dei media
Il rapporto tra Chiesa e media non è semplice. Alcune modalità della narrazione degli abusi e delle violenze esprimono talora ostilità. L’insistenza su questo tema può, tuttavia, anche riflettere un’aspettativa (delusa) verso la Chiesa, cosa che non è semplicemente negativa.
I media possono anche essere strumentalizzati: l’ex nunzio mons. C.M. Viganò ne vede dei megafoni per la sua campagna volta a destituire il papa (cf. Regno-att. 16,2018,452). Ancora, occorre dire che i giornalisti operano necessariamente dei tagli selettivi della realtà. Se sembrano prendere di mira prevalentemente i sacerdoti cattolici, è perché per loro è impossibile mettere a confronto il clero cattolico con quello delle altre Chiese. Solo la Chiesa cattolica possiede statistiche complete riguardanti oltre mezzo secolo. Tuttavia, nonostante le possibili distorsioni, i media hanno svolto un lavoro utile nel contesto attuale: senza di loro ciò che era stato accuratamente nascosto sarebbe rimasto tale. In questo senso, non sono forse alleati oggettivi di papa Francesco per sradicare un male intollerabile?5
Tuttavia, possono i media «fare piena luce» sugli abusi e sulle violenze sessuali, se la maggior parte delle vittime non vuole vedere la propria vita esposta in pubblico? E se il 5% delle denunce è diffamatorio? La confusione tra tempo dei media e tempo della giustizia può anche portare a gravi mancanze di rispetto comunque dovuto nei confronti delle persone. Queste difficoltà sono reali e giustificano il fatto che si faciliti il lavoro dei media: esservi presenti non è secondario, perché il Vangelo è per tutto il popolo.
Mentre per mons. Viganò lo scandalo sembra riassumersi nella presenza di omosessuali nel clero, e per un certo cardinale di Curia «la pedofilia non riguarda la Chiesa come istituzione ma le persone che attraverso di essa hanno commesso questi atti»,6 per papa Francesco il nucleo della questione non è sul piano della sessualità, ma risiede nel fatto che le autorità hanno fallito nel proteggere i minori e le persone vulnerabili.
In alcuni ambienti è sotto accusa l’influenza della liberalizzazione dei costumi nata dal maggio Sessantotto, accusata di puntare a un piacere senza limiti.7 In ciò, si dimentica che da allora siamo diventati sempre più consapevoli del potenziale legame tra sessualità, potere e violenza, come il movimento Me-too ci ha ampiamente mostrato.
La diagnosi di papa Francesco si basa su questa correlazione che porta, in tutti i luoghi di vita e di lavoro, la sessualità dei forti a volersi imporre sui deboli. Le violenze sessuali hanno sempre questa dimensione, come dimostrano le statistiche del Ministero della giustizia francese: 77.000 donne vengono violentate ogni anno, 215 al giorno, 1 ogni 6 minuti; 1/4 della popolazione carceraria è composta da delinquenti sessuali, il 90% maschi. Gli autori di violenze sessuali sui minori hanno tutti il medesimo profilo: padri incestuosi (nell’80% dei casi giudicati), insegnanti, allenatori sportivi, direttori di coro, capi scout. Ricoprono ruoli d’autorità, a contatto con persone vulnerabili, proprio come il clero. Tali violenze sono quindi, purtroppo, prevedibili e come tali sono avvenute anche nella Chiesa.8
Un’antica forma clericale
Papa Francesco ritiene quindi che lo scandalo più profondo non sia quello delle derive sessuali in sé stesse (sebbene abbiano esiti orribili per le vittime, come non manca di sottolineare), ma risieda negli atteggiamenti di quei superiori religiosi, vescovi e guide carismatiche che hanno sistematicamente occultato i crimini; in tal modo hanno protetto i predatori, ignorato le vittime e tradito la fiducia dei giovani e dei loro genitori. Questo senza chiaramente misurare l’estrema gravità della loro condotta.
Responsabili della loro istituzione, la loro prima reazione è stata di salvaguardarne la reputazione. E la seconda di voler comprendere l’autore del reato in termini psicologici («è necessaria una psicoterapia»), o in termini teologici («un’altra parrocchia permetterà al peccatore pentito di rialzarsi»). Tuttavia, di fronte al male, non si tratta di trovare spiegazioni (che sfuggono peraltro allo stesso colpevole), ma bisogna combatterlo e bisogna impedire che prosperi. La misericordia arriva solo in un secondo momento.9
Quando papa Francesco ripete «dire no agli abusi, è dire no, in modo categorico, a qualsiasi forma di clericalismo»,10 è chiaramente consapevole che il tipo di autorità e di potere riconosciuti al clero nella Chiesa cattolica deve essere riformato. Perché, nella fattispecie, ciò facilita il passaggio all’azione dei potenziali trasgressori, fornisce loro anche una copertura ed è ciò che ha portato alla gestione disastrosa di questi abusi e violenze. È quindi necessario analizzare rigorosamente il fenomeno del clericalismo.
Per evitare di parlare di clericalismo in termini vaghi e mal definiti, è meglio fare riferimento al Codice di diritto canonico in vigore fino al 1983.11 In modo molto chiaro definisce la Chiesa come una Chiesa del clero, dedicando un unico canone, generale e positivo, ai laici: «È diritto dei laici ricevere dal clero i beni spirituali, gli aiuti necessari alla salvezza» (can. 682).
Nella Chiesa, i laici sembrano godere solo dei diritti di cittadini stranieri, residenti e protetti; i chierici godono della piena cittadinanza. Questo Codice ignora il popolo di Dio nella sua unità e conosce solo laici subordinati in tutto ai sacerdoti, che sono loro superiori fino alla morte.12
Questo Codice è il fedele riflesso dell’ecclesiologia del tempo, come affermava san Pio X in un’enciclica rivolta alla Chiesa di Francia: «La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i pastori e il gregge (…) Queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri della società; quanto alla moltitudine non ha altro diritto che di lasciarsi guidare e seguire, come un docile gregge, i suoi pastori».13
Questa distinzione tra governanti e governati si riscontra con altrettanta rigidità tra celebranti e assistenti, docenti e discenti. Era largamente accettata al momento della convocazione del concilio Vaticano II, come testimonia questo editoriale della rivista ufficiale dell’Azione cattolica operaia francese: «Sul piano della fede, il vescovo è dottore. Il dialogo tra il vescovo e i laici cristiani è certamente possibile, ma il laico non può che apprendere, ricevere. È preso in carico dalla gerarchia. È un segno di comportamento adulto accettare la propria condizione».14
In questo contesto, non è importante sapere come si sia arrivati a una concezione della Chiesa così lontana dal Nuovo Testamento, dal momento che il Vaticano II l’ha chiaramente delegittimata ricollegandosi alla teologia del popolo di Dio e all’affermazione della pari dignità di tutti i cristiani e della loro comune responsabilità in una Chiesa di comunione.
La riforma (incompiuta) del Vaticano II
Sul piano dottrinale, il Vaticano II ha ripudiato completamente un tale binomio, ad esempio in Lumen gentium 37: «I pastori, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo» (EV 1/385).
Secondo questo testo, che molto raramente è commentato, il Concilio fa dipendere la correttezza del discernimento spirituale dei pastori dalla loro vicinanza ai laici; respinge allo stesso tempo la divisione tra clero e laici, ereditata dalla riforma gregoriana, che confinava i laici nel temporale e riservava lo spirituale ai chierici.15
Il Vaticano II ha accompagnato questa riforma dottrinale con la creazione di strutture istituzionali che permettessero ai battezzati di essere soggetti di diritti nella Chiesa, con i sinodi diocesani e i concili provinciali e una serie di consigli, pastorali, economici e dei laici.
Il nuovo Codice, previsto da Giovanni XXIII, doveva redigere i decreti di applicazione ma, promulgato poi da Giovanni Paolo II nel 1983, ha ridotto al minimo questo diritto di comunione. Nessun sinodo o consiglio che prevede la presenza di laici è stato dichiarato obbligatorio, e in ogni caso gli è stato attribuito solo uno status consultivo.
Per altro verso, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fortemente incoraggiato il diritto d’associazione dei laici, previsto dal Codice stesso. Così si sono moltiplicati i nuovi movimenti, carismatici e non. Debitori della loro esistenza alla Santa Sede, ne sono il rimando, in una configurazione di «comunione gerarchica», dove l’aggettivo prevale sul sostantivo. Di conseguenza, il governo della Chiesa è rimasto strettamente nelle mani del clero. Così, il card. J.P. Schotte (1928-2005), segretario generale del Sinodo dei vescovi, esprime il diritto in vigore nel Codice riveduto, e non un’opinione personale, quando afferma: «Sia chiaro, nella Chiesa cattolica un parroco non deve rendere conto a nessuno tranne che al suo vescovo; un vescovo non deve render conto a nessuno tranne che al papa. E il papa non deve render conto a nessuno se non a Dio».16
Tutto ciò che precede illumina l’affermazione di papa Francesco secondo cui «il clericalismo genera una scissione nel corpo ecclesiale». Restano da esplorare le basi ideologiche.
«Il clericalismo» – scrive papa Francesco – è «favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici». Questo «modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa (…) tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente».17
Nel notare l’avallo dei laici a questo regime di autorità, favorito dai sacerdoti, papa Francesco non dà la colpa ai sacerdoti né a tutti i laici né a tutti i sacerdoti, ma attira l’attenzione sul meccanismo delle loro relazioni. In termini sociali, questo meccanismo viene messo in atto quando i chierici inculcano ai laici la loro mancanza di potere e la loro ignoranza, mentre affermano la propria elezione e superiorità a motivo della grazia della loro ordinazione.
I laici come coloro che non hanno potere…
È da secoli che i catechismi più autorevoli definiscono i sacerdoti in prima istanza sulla base dei loro poteri, in opposizione ai laici che ne sono privi. È il caso del Catechismo del concilio di Trento,18 del Catechismo cattolico del cardinale Gasparri,19 del Catechismo nazionale di Francia che definisce il sacerdote per «il potere di eseguire le funzioni sacre»,20 quel potere di consacrare e assolvere, che i laici non hanno.
Il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 ne conserva tracce: cita un’enciclica di Pio XII per la quale «in forza della consacrazione sacerdotale che ha ricevuto, è in verità assimilato al Sommo sacerdote, gode della potestà di agire con la potenza dello stesso Cristo che rappresenta».21 Tale insegnamento modella inevitabilmente la relazione dei laici con il clero.
…e anche come coloro che non sanno
Fino al Vaticano II ogni liturgia e ogni sacramento viene celebrato in una lingua comprensibile solo ai chierici. Una pratica di una così grande portata simbolica pone i laici nel non sapere ciò che li caratterizza: come, ad esempio, secondo l’enciclica, già menzionata, di san Pio X, che ha molti paralleli, o come anche il più recente editoriale di Masses ouvrières.
La preoccupazione di papa Francesco di prendere in considerazione il contributo positivo dei fedeli all’esercizio del magistero non è scontato, perché il ruolo attivo che Lumen gentium 37 assegna loro non si trova in Dei Verbum.
L’analisi molto precisa, in termini sociali, del futuro arcivescovo Gérard Defois mette in luce che la parola del magistero è a senso unico; non riceve nulla dall’ambiente circostante, né dalla memoria del gruppo, né dall’esperienza che il gruppo fa di questa parola. «È un circuito senza feed-back, cioè è chiuso sul proprio funzionamento (…) senza alcuna possibile correzione, in corso d’esercizio, per migliorare la diffusione e trasformare il messaggio».
I fedeli sono presentati come «figli della Chiesa, oggetti dell’azione della gerarchia o soggetti di doveri»; sono «nutriti, educati, informati, esortati; si tradurranno per loro le immense ricchezze della parola divina; sarà tradotto per loro il testo, si aprirà loro l’accesso» eccetera.22
Certamente, papa Francesco si è smarcato da una concezione esclusivamente autoreferenziale del magistero. In fedeltà a Lumen gentium, che comprende la Chiesa come popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo, egli concepisce l’accesso del popolo di Dio alla verità in modo molto più sinodale, nell’ascolto reciproco tra i tre poli della vita della Chiesa che sono la gerarchia, la teologia e i fedeli. Ognuno di questi poli deve tener conto degli altri due; altrimenti, a seconda dei casi, le persone rischiano di cadere nella superstizione, i teologi nel razionalismo e la gerarchia nell’arbitrio, come esprime bene la frase – ci auguriamo apocrifa – attribuita a Pio IX: «La tradizione sono io».23
Si potrebbe giustamente notare che sono stati citati testi sulla mancanza di potere e sull’ignoranza dei laici senza collocarli nel loro contesto storico e che dopo il concilio Vaticano II non hanno altro che un interesse archeologico. Ma così facendo, ci si è adeguati alla pratica del magistero stesso che non storicizza i suoi documenti,24 tanto più che i laici continuano a essere associati alla mancanza di potere e all’ignoranza: il «potere sacro» resta una delle categorie fondamentali del Codice riveduto del 1983, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.
I chierici «prescelti» da Dio?
Secondo papa Francesco «il clericalismo nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare».25 Nei fatti la vocazione è comunemente intesa come una scelta di Dio, perché sarebbe una chiamata, interiore e misteriosa, proveniente direttamente da Gesù stesso. Essa muove al rispetto tanto più per il fatto che implica rinunce (a partire da quella alla vita familiare) e la promessa di una completa dedizione. Non è un caso che di una vita donata agli altri si dica che è un «vero sacerdozio!».26
Una tale concezione della vocazione inscritta nel linguaggio («farsi prete») è in contrasto con la tradizione richiamata da san Pio X ancora nel 1912: «La vocazione non consiste in un invito dello Spirito Santo ad abbracciare il sacerdozio», ma nel richiamo che la Chiesa fa a un cristiano di cui ha verificato le qualità.27
Peraltro, vent’anni dopo, Pio XI, esigendo che gli ordinandi giurassero sui santi Vangeli «Sperimento e sento che Dio veramente mi chiama»,28 consacrerà questo moderno soggettivismo rovinoso per l’equilibrio tra la scelta da parte della Chiesa e la scelta da parte di Dio,29 rendendo autonomo il clero rispetto ai fedeli.30
Riusciranno le conclusioni del Sinodo sui giovani ad aiutare una più giusta concezione della chiamata ai ministeri ordinati?
È difficile negare che, nel corso della storia, gli effetti dell’ordinazione siano stati teologicamente sopravvalutati in Occidente ma non solo.31 In Occidente, il sacerdote è descritto come «l’altro Cristo», «mediatore tra Dio e gli uomini», «sacerdote per sempre», «mille volte superiore agli angeli».
Jean Jacques Olier (1608-1657), il modellatore dei seminari della Congregazione di san Sulpizio, insegnava persino che i preti sono «le sorgenti feconde e inesauribili di tutte le grazie; tutto quello che si opera di santo, grande e divino nella Chiesa, emana da loro e si opera attraverso il loro santo ministero».32 Scriveva persino che «Il Padre eterno associa il prete al potere di generare il Verbo (…) e d’inviare lo Spirito Santo (…) in modo tale che Egli non si riserva nulla che non comunichi al prete».33
Il Vaticano II ha certamente riequilibrato questa «spiritualità sacerdotale» ma ha ripreso, senza sufficiente spiegazione, espressioni tecniche suscettibili d’ambiguità: i sacerdoti «agiscono in persona di Cristo», «nel nome di Cristo capo» (Lumen gentium, n. 28 e Presbyterorum ordinis, nn. 6. 12; EV 1/354; 1257. 1282); l’ordinazione li segna con un carattere indelebile, cosa che per alcuni genera una differenza ontologica tra sacerdoti e fedeli,34 fondata, a torto, nella differenza «essenziale e non solo di grado» tra il loro sacerdozio e quello dei laici (Lumen gentium, n. 10; EV 1/312). Di fatto la concezione cristiana della santità è stata assorbita, in questo caso preciso, dalla categoria del sacro.
Questo breve rimando aiuta a chiarire perché papa Francesco sia preoccupato nel vedere «il clericalismo sottovalutare la grazia battesimale».35 Non è forse svilita quando si lascia intendere che tutta la vita cristiana dipende dai sacerdoti, come fa il Curato d’Ars quando dice: «Lasciate una parrocchia senza un prete per vent’anni e poi lì adoreranno gli animali»?
La grazia del battesimo è anche sottovalutata tra i sacerdoti influenzati da questa pseudo-spiritualità sacerdotale, poiché è il battesimo l’unico fondamento della loro santità.
Clericalismo e cultura del silenzio
Come non vedere che il clericalismo, vale a dire la struttura binaria della Chiesa e la pseudo-spiritualità che la giustifica, porta direttamente al silenzio dei fedeli, persino al loro concorrere nel coprire gli abusi e le violenze sessuali? Rende impensabile la figura di un prete perverso. Porta inevitabilmente a pensare che le vittime minorenni lavorino di fantasia e, nel caso di fatti accertati, molti non vogliono danneggiare con un’eventuale denuncia la reputazione dell’insieme del clero.
Queste rappresentazioni hanno anche acuito la vittimizzazione delle persone che hanno subito violenza: era stata loro inculcata la fiducia assoluta nei loro aggressori; vedersi traditi può solo distruggerle interiormente, aggravare i sensi di colpa e far sprofondare in quel silenzio che le vittime conservano per lunghissimi anni. È evidente che i vescovi e i loro collaboratori, i superiori religiosi o i responsabili di nuovi movimenti, o gli alti responsabili della Curia romana che hanno coperto i delinquenti non sono mostri che compiono deliberatamente il male. Non hanno niente a che vedere con Eichmann. Tuttavia, incontriamo qui quella banalità del male di cui parla Hannah Arendt.
Senza indossare la toga da procuratore, è necessario identificare alcuni fattori che hanno portato questi responsabili a ignorare le vittime e a non rompere un silenzio mantenuto così a lungo, se non sotto la pressione di autorità secolari. Questa analisi s’impone più della preghiera, della penitenza e della richiesta di scuse, perché se non indentifichiamo questi fattori, non c’è il rischio che le stesse cause producano gli stessi effetti?
Quando papa Francesco vede nel clericalismo l’origine degli abusi sessuali e della loro copertura, sta quindi prendendo di mira comportamenti istituzionalizzati nel mondo clericale. Ce ne sono quattro che sembrano pesare in modo particolare; li analizzeremo qui, anche se ce ne sono sicuramente altri.
Santità e segretezza della confessione
Oltre al concubinato del clero, il Codice del 1917 punisce solo le violenze sessuali commesse nel contesto della confessione (sollicitatio ad turpia). Questo peccato, che mina la santità della confessione, è così grave che l’assoluzione è riservata esclusivamente al papa attraverso la Congregazione per la dottrina della fede. Ogni altra assoluzione sarebbe invalida e punibile con la scomunica (can. 2.336).
Per proteggere rigorosamente il segreto della confessione, la legge impone con giuramento la massima segretezza a tutti coloro, cancellieri, avvocati, semplici testimoni, che possono esserne venuti a conoscenza e innanzitutto allo stesso vescovo. Le vittime sono menzionate solo per dire che saranno scomunicate se non denunciano il loro aggressore al vescovo entro un mese (can. 2.368, § 2).36 Il Codice del 1986 continua a ignorarle. La tutela del segreto della confessione si traduce quindi nell’impossibilità di denunciare i colpevoli alle autorità giudiziarie. Così per cattiva abitudine e sicuramente anche per proteggere la reputazione del clero, altri reati sessuali commessi fuori dal confessionale sono stati di norma coperti da un segreto molto rigido, con gli effetti che attualmente stanno venendo alla luce.
Il privilegio del foro ecclesiastico
È dovuto alla medesima mentalità abitudinaria l’attaccamento della gerarchia al privilegio del foro che, da Costantino in poi, le consente di giudicare i propri membri senza l’intervento dei tribunali civili. Rileviamo anche che il segretario di Stato di Giovanni Paolo II37 e il suo prefetto della Congregazione del clero erano intervenuti ufficialmente per sottrarre alla giustizia civile sacerdoti colpevoli.38Non ci si può quindi stupire del silenzio generale dei vescovi e dei superiori religiosi.
Il privilegio del foro è stato anche rivendicato in alcuni concordati del XX secolo39 e, anche laddove non esiste alcun concordato, l’abitudine ha portato la polizia di alcuni paesi cattolici a fingere di non vedere.40
Ma sbagliano i media a ritenere che papa Francesco condivida la stessa mentalità quando invoca l’immunità diplomatica dello Stato vaticano per impedire che il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede compaia come testimone davanti a un tribunale francese. In realtà, il suo rifiuto è volto a salvaguardare il segreto della confessione perché la sua funzione comporta, com’è stato evidenziato, l’affrontare questioni direttamente legate a esso. Ci sono però diversi governi, come ad esempio quello dell’Australia, che ne vorrebbero la revoca, così come del segreto medico, per i casi di pedofilia.41 Ma questo segreto non è negoziabile.
Un potere gerarchico monocratico
Nella Chiesa cattolica, il potere gerarchico è esercitato classicamente senza che chi lo detiene debba render conto a nessuno. La Riforma si è battuta contro questo tipo di governo che Melantone chiamava «un potere anypeuthynon, cioè che nessuno ha il diritto di discutere e giudicare»,42 potere che le norme di legge in vigore hanno rinnovato dopo il Vaticano II, come ha osservato il card. Schotte, già citato. Una tale struttura è doppiamente favorevole all’abuso e alla violenza sessuale per il fatto che sono sempre perpetrati da persone in posizioni di potere, prestigio o carisma personale; e che, d’altra parte, è più facile la copertura dei colpevoli dal momento che i loro responsabili istituzionali non devono render conto a nessuno, nemmeno alla giustizia civile.
Consapevole dei limiti di un magistero autoreferenziale, papa Francesco, appoggiandosi al concilio Vaticano II (cf. Lumen gentium, n. 12) ricorda di tanto in tanto l’infallibilità del popolo di Dio nella sua interezza. In particolare, ha voluto articolare con maggiore precisione i processi collegiali e sinodali nei due sinodi della famiglia, inviando questionari a tutti i vescovi perché fossero elaborati nelle diocesi.
La loro ripresa doveva permettere ai 200 padri sinodali, tutti di sesso maschile e celibatari, d’affrontare in modo più appropriato le problematiche legate al corpo, alla sessualità, all’equilibrio affettivo in un contesto più ecclesiale rispetto alla promulgazione dell’Humanae vitae.43 In questo ambito, è mancato il collegamento vitale, come già riteneva Newman, tra magistero, sensus fidei dei fedeli e lavoro teologico.44
Da parte dei teologi erano stati posti molti interrogativi sull’ambito della sessualità, ma invano, perché era stato loro imposto d’autorità il silenzio sul dibattito suscitato dall’Humanae vitae, un silenzio imposto nuovamente sul tema dell’ordinazione delle donne. Questo silenzio imposto alla riflessione non è forse parte di un altro silenzio, quello che i superiori religiosi, vescovi e persino cardinali stanno pagando a caro prezzo, e tutta la Chiesa con loro? C’è bisogno d’incoraggiare nella nostra Chiesa una riflessione permanente.
Da parte loro, sembra che ai laici non rimanga che parlare o rifiutarsi di sostenere economicamente la propria Chiesa.45 Per contenere un male che nel lungo periodo riemergerà, solo la partecipazione di laici, padri e madri di famiglia, alle responsabilità in tutti gli ambiti della vita della Chiesa potrebbe cambiare la situazione. In breve, occorre una maggiore sinodalità.
Quali riforme attendere dall’incontro di febbraio?
Papa Francesco ha legato la risposta alle violenze sessuali alla messa in atto, a tutti i livelli della vita della Chiesa, di una sinodalità fedele agli orientamenti del Vaticano II, sin qui lasciati in ombra. Questa sinodalità non dovrà evidentemente essere confusa con una sorta di democratizzazione della Chiesa.46
Dato che il sinodo del prossimo febbraio sarà molto breve, potrà affrontare un’agenda così vasta?
Con ogni probabilità, dopo aver espresso il proprio pentimento e la propria preoccupazione per le vittime, i padri sinodali non mancheranno di domandare la stesura di un codice di condotta per la protezione dei minori così come un aggiornamento del diritto penale della Chiesa, per quanto riguarda sacerdoti e vescovi. Auspicheranno inoltre delle direttive per la formazione, in particolar modo psicologica, dei futuri sacerdoti.
Ma non sarebbe forse un peccato che a motivo del poco tempo a disposizione, questo sinodo non andasse oltre questo genere di misure e al di là degli appelli alla conversione personale?
Infatti gli importanti problemi di fondo che questa crisi ha rivelato rischiano di rimanere senza riforme strutturali. Orientarsi verso una governance maggiormente sinodale porterebbe invece a delle felici ricadute pastorali senza contare che vi è una richiesta in tal senso anche da parte dell’ambito ecumenico.
Infine, poiché la crisi attuale proviene anche da un male ordinario fatto da assopimento spirituale e intellettuale e da ignoranze più o meno colpevoli, questo sinodo potrebbe chiedere che venga stimolata nell’insieme della Chiesa una riflessione permanente.
Di fronte all’ordinarietà di questo male, ci siamo addormentati, quando invece potevamo e dovevamo agire. Davanti al male radicale non abbiamo altra possibilità che rifugiarci in Dio, secondo le ultime parole della preghiera che il Signore ci ha lasciato: «Liberaci dal male».
Hervé Legrand