la riflessione di don Marco incentrata sulla figura di Kadjia fa tornare alla mente le parole del vangelo di luca
“Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.”
E’ ormai venerdì sera e anche questa settimana è volata via tra molteplici e disparati impegni. Ancora una volta cerco uno spunto per questa riflessione, ma troppi problemi, troppe situazioni affollano la mia mente; per questo motivo non riesco a riordinare i pensieri e a calmare le mie emozioni. Soprattutto non posso staccare il mio cuore da Kadija (nome di fantasia, benché molte di voi riusciranno ad identificare la donna che vi sta dietro…), che secondo l’avanzato sistema sociale lombardo dovrebbe andare a vivere per strada.
Travolto dalla preoccupazione per questa donna, riaffiorano nella mia memoria le parole toccanti, pronunciate ieri sera dalla mamma di Vittorio Arrigoni, attivista per la Pace e la Giustizia ucciso a Gaza il 15 aprile 2011. Di fronte alla barbarie dell’ennesima campagna israeliana contro Gaza, denominata “Piombo fuso”, lui fu l’unico italiano che rimase sotto le bombe israeliane per denunciare al mondo quella tragica violenza. Così anch’io, non essendo riuscito a trovare una via d’uscita per Kadija, provo a raccontare questa ennesima storia d’ingiustizia e di razzismo.
Conobbi Kadija, credo, un paio d’anni fa. Lei senegalese di fede mussulmana mi accolse sulla soglia di casa titubante, mentre aspettava il marito di ritorno dal lavoro e dalla spesa. In quei venti minuti circa, che ci separarono dall’arrivo del marito, mentre stringeva a sé uno dei suoi tre figli, riuscì a presentarmi uno squarcio della sua vita, titubante tra la paura di intrattenersi con un uomo a lei estraneo ed il desiderio di comunicare le sue grandi sofferenze.
Ciò nonostante, ebbi modo di percepire le sue difficoltà matrimoniali, la sua struggente nostalgia del Senegal, che non vedeva da dodici anni circa, e il suo attaccamento morboso ai figli, unica ragione della sua vita. Come arrivò il marito, nel breve volgere dei saluti di rito, svanì nei meandri del loro appartamento. Quando riapparve, era religiosamente coperta dal velo islamico e non proferiva più parola.
Eppure Kadija, dicono le donne del paese, quando esce senza il marito rivela, un innato senso estetico e non di rado cambia il suo look.
A scuola le maestre hanno grosse difficoltà ad interagire con lei, non solo per problemi linguistici. Così è difficile predisporre un percorso di sostegno per i figli, che denunciano gravi carenze nell’apprendimento. E’ difficile dire chi sia realmente Kadija, anche perché il nostro brillante servizio socio sanitario non è ancora riuscito a somministrarle un test psicoattitudinale. Personalmente mi sembra una delle tante vittime incoscienti del sogno occidentale, visto da un villaggio africano, rivelatosi poi un terribile incubo, fatto di esclusione e marginalità.
In questo quadro grossolanamente riassunto, Kadija e suo marito accentuano le loro difficoltà relazionali, fino a veri e propri scontri violenti. Al che il Tribunale per i Minori decide preventivamente l’allontanamento dei figli dal nucleo familiare. La coppia inizia l’iter della separazione.
Nel frattempo, però, giunge a maturazione la solita procedura di sfratto, intentata dal proprietario del loro appartamento, perché intenzionato a vendere la casa. Iniziativa lodevole e degna per noi intrisi di neoliberismo selvaggio. Ma la famiglia di un operaio, che si spacca la schiena cinquanta ore la settimana, dove va poi a vivere? Se realmente fossimo nella migliore delle società di questa Terra, questa famiglia potrebbe cercarsi un’altra casa in affitto compatibilmente con le sue possibilità economiche. Invece, questa famiglia, in un batter d’occhio, da risorsa per il Paese è diventata un problema scaricato sui soliti Servizi Sociali.
Per chi non l’avesse ancora capito, così funziona l’Italia negli ultimi trent’anni. Questa fascia sociale, denominata fascia grigia dai sociologi, ben più ampia dei quattro milioni di poveri, ebbene questa fascia composta da schiere di lavoratori poco qualificati, è la base di quella maledetta piramide sociale, che porta il peso della nostra ingiustizia strutturale. Nonostante tutta le demagogia al riguardo, non si tratta di prostitute, spacciatori e lazzaroni da Reddito di cittadinanza. Si tratta di uomini e donne sfruttate fino all’osso per le loro capacità lavorative, ai quali però è negato il diritto di una casa dignitosa.
Ma le nostre brave genti italiche non finiscono mai di sorprenderci. Così succede che, mentre al marito i datori di lavoro trovano una sistemazione provvisoria, perché alla fine la sua forza lavoro a qualcosa serve; per la povera donna rimane solo la Caritas cristiana e l’insofferente interessamento dei Servizi sociali. E così, mentre i Servizi sociali allargano costantemente le braccia al motto: “Il sindaco dice che non ci sono soldi per questi casi!”, le sante operatrice della Caritas scoprono la possibilità di una sistemazione momentanea in un monolocale in un residence della zona. Dopo aver definito i termini del contratto e i tempi del trasloco, previsto per questo sabato mattina, venerdì mattina arriva un anonimo messaggio whatsapp: “Con rammarico dobbiamo comunicarvi che, per un malinteso tra le nostre operatrici, il monolocale a voi assegnato di fatto era già stato promesso ad altra persona. Ci scusiamo per il disguido”.
Siccome questa procedura in passato era stata seguita nei riguardi di un’altra donna nigeriana, a voi lettrici e lettori l’ardua sentenza…
Pe. Marco