Le letture di questa III° Domenica d’Avvento, nonostante il titolo posto dai liturgisti “Le profezie realizzate”, contengono pur sempre questo brano di Giovanni, che il Card. Martini definiva come uno dei passaggi più duri del Vangelo, perché ci troviamo di fronte al paradosso tragico dei Giudei, che, pur meditando le Scritture, non riescono a riconoscere che Gesù è la Parola, che in esse è proclamata.
In questo senso, forse, il titolo di cui sopra può trarre in inganno; infatti quando ci si trova di fronte ad un compimento, che cosa ci resta da fare? Nulla, tutto è già stato fatto, realizzato. Ovvero, il grande pericolo è di sedersi compiaciuti, aspettando il corso degli eventi, finché verrà la nostra ora “di andare in Paradiso”. Chiedo perdono a voi lettori, per questo indugiare su di un dettaglio che, forse, i più neanche stanno capendo. Eppure, a mio avviso, è dalla somma di questi dettagli, apparentemente irrilevanti, che abbiamo costruito lungo i secoli la nostra “religiosità da museo”, come felicemente la definisce il nostro grande e inascoltato Papa.
Senza voler togliere nulla al “lavoro di Dio”, sul quale, tra l’altro, non possiamo incidere minimamente, penso sia bene ricordare che tutta la Parola di Dio, tutta la Rivelazione, non è una sorta di autocompiacimento di Dio, un atto narcisistico, come quello dei nostri politici.
La Parola, il rivelarsi del Signore, è sempre “per la nostra libertà”, per suscitarla, sostenerla, illuminarla, perché, facendo il bene, sia sempre più libera e forte.
Ecco allora che, se il Vangelo, oggi, ci rivela il lato più tragico della nostra libertà, la prima lettura vuole, invece, risvegliare la nostra libertà, anche se fosse caduta nella schiavitù più opprimente.
A questo riguardo penso non sia superfluo ricordarci il contesto in cui il Secondo Isaia pronunciò questi oracoli. Siamo alla fine dell’esilio babilonese, quando, a seguito dell’Editto di Ciro, il Popolo d’Israele è lasciato libero di ritornare nella sua terra. Ma, anche per il fatto che l’esilio non fu così duro come si pensava (ogni peccato porta sempre con sé una qualche forma di piacere…), ecco che molti deportati rimangono incerti e titubanti, se valga la pena intraprendere quel lungo viaggio di ritorno alle proprie origini e alla propria identità più vera. Varrà la pena lasciarsi contagiare dalla chimera della libertà? E poi, sapremo mantenerci liberi obbedendo alla Parola? L’esilio/schiavitù non è forse la condizione più vera del nostro essere uomini? Dunque, perché rimetterci in gioco, alla ricerca di una terra “dove scorre latte e miele”, che, finora però, nessuno ha mai incontrato?
Esattamente in questo contesto, non certo edificante, il profeta proclama gli oracoli, contenuti nei cap. 40-55 del Libro di Isaia. In questa prospettiva dobbiamo allora leggere i versetti, proclamati in questa Domenica. Il loro tono positivo ed entusiastico vuole compensare il pessimismo e la rassegnazione dominante tra il Popolo d’Israele.
Dentro lo scatenarsi di queste differenti visioni, il Profeta introduce un elemento, che, a mio avviso, la nostra Spiritualità ed anche la nostra Teologia, hanno lasciato un po’ cadere. È il tema della Giustizia divina. Purtroppo capisco che, accennare a questo aspetto, senza i debiti chiarimenti, potrebbe risultare fumoso, o, addirittura, pericoloso. Ma chi non ha ancora rinunciato alla sua coscienza critica, può sempre approfondire personalmente la questione.
Orbene, la Giustizia divina nella Bibbia non è, innanzitutto, il giudizio di Dio, di condanna o assoluzione. La Giustizia è l’Ordine armonioso con cui il Signore ha creato la realtà. In questo Ordine armonioso ogni cosa ed ogni persona hanno il loro posto ed il loro senso, la loro missione da compiere. In questo contesto, in cui la nostra libertà crea continuamente ingiustizie, rompe continuamente questa armonia tra gli esseri, Lui, il Signore, rimane il garante, opera continuamente, per riportare la Sua Creazione a quell’Ordine armonioso, a quella Giustizia, con la quale ha formato il tutto. In questo senso, allora, capiamo anche il significato profondo della Misericordia divina: non è tolleranza del male, bensì possibilità sempre offerta all’uomo di ritornare alla sua giusta vocazione, alla Giustizia originaria.
È in questa prospettiva che dobbiamo leggere la Prima Lettura di oggi. La condizione di esilio, in cui versa il Popolo d’ Israele, è contro il progetto/la Giustizia di Dio. Nel piano di Dio quell’esilio era solo una misura pedagogica, perché il Popolo capisse la gravità del suo peccato, attraverso le conseguenze dello stesso. Ma il progetto del Signore su Israele non è cambiato. In altre parole, Dio non “si rassegna” nell’abbandonare Israele in balia delle conseguenze del suo peccato, della sua emulazione dei costumi dei pagani. Il Signore continua la sua opera, nella quale Israele è chiamato a vivere libero nella sua Terra, per costruire una storia ed una società differenti, obbedendo alla Legge, alla Parola del Signore.
Ecco allora che tutta la Prima Lettura, come molti altri passi biblici, è attraversata da questo paradosso: Il Signore crede nella nostra capacità di fare il bene, di essere giusti, più di quanto noi crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità positive. Purtroppo questa sottolineatura meriterebbe un approfondimento maggiore, che però porterebbe ad estrapolare lo spazio di questa riflessione. Ciò nonostante, mi sia permessa una piccola annotazione autobiografica.
Personalmente non posso non rileggere queste dinamiche bibliche dentro l’attuale congiuntura della mia vita. Tutti coloro, che vengono a conoscenza dei retroscena della mia attuale espulsione dalla Diocesi di Grajaú, manifestano ripudio ed indignazione per la palese ingiustizia in corso. Dopo di che, soprattutto in coloro che possono intervenire in questa situazione, la reazione prevalente, finora, è stata di inevitabile rassegnazione, perché “ci sono tante ingiustizie, nella Chiesa e nel mondo, è questa tua non è, né l’unica, né la peggiore”. Mi pare, invece, che, essendo ancora la situazione molto fluida ed aperta a vari sviluppi, l’impegno per rivedere le decisioni fin qui prese, al di là del suo esito finale, può servire come testimonianza circa il progetto di Dio sulla Chiesa, presente nella Diocesi di Grajaú, che non può e non deve scendere a patti con nessun tipo di menzogna e d’ingiustizia.
don Marco