Sì carissimi amici, mentre mi tormentavo per trovare la parole per dire la Risurrezione di questa Pasqua della nostra debolezza, ecco che come una folgorazione mi è ritornata alla mente la bellissima poesia di Quasimodo, che a sua volta rimanda al Sal 137. Pur avendo queste tre situazioni caratteristiche proprie, eppure sono accomunate da questo sentimento comune: quello della fragilità umana e della nostra impotenza. Conseguentemente, come potremmo cantare, far festa, esultare di fronte alla morte ed al fallimento? Di fronte al dolore di tante famiglie schiacciate da questo dolore, senza il consolo della pietà umana e cristiana? Solamente un alto grado di schizofrenia potrebbe permetterci di fare ciò.
Eppure… eppure non possiamo non cantare! Sì, noi che abbiamo “visto” Gesù risorto non possiamo non cantare; non possiamo non dire ed annunciare “ciò che i nostri occhi hanno visto e le nostre mani hanno toccato”! Sì, dobbiamo cantare, senza arroganza e in assoluta discrezione, perché mai, come in questo momento, in cui si sta rivelando chi siamo noi “canne pensanti” spezzate dal vento della Vita, ebbene in questo tempo di verità per l’umanità, è importante che appaia la luce del Cristo Risorto, unico vero Liberatore dell’uomo e della donna. A causa delle solite contraddizioni liturgiche, questa sera in molte chiese non si farà il tradizionale lucernario della Veglia pasquale, con l’accensione del fuoco. Ecco allora che a maggior ragione a ciascun credente è chiesto di essere lui/lei una fiaccola vivente, puro riflesso del Signore Risorto.
E non preoccupiamoci di come e quanto risplenderemo: semplicemente mettiamo sul candelabro della Vita la lampada della nostra testimonianza, del nostro affidamento rinnovato, a Lui, unico Signore della nostra vita.
Perché questa è la luce del Risorto. Non una luce abbagliante, sfolgorante, come tante volte ha voluto essere la Chiesa; come ancora insistono ad essere tante sette pentecostali; quasi che la Risurrezione di Gesù avesse eliminato il male ed il dolore dal mondo. E sì, grande e luciferina tentazione questa di una fede trionfante e gloriosa, che ha seminato vittime ad ogni angolo di strada, o non vuol vedere i gemiti della Creazione sotto i suoi piedi!
Come il luccicare lontano e prezioso delle stelle può salvare dalla peggior tempesta; come un barlume flebile nella notte più oscura può condurci in una foresta impenetrabile, così è il Signore Risorto.
Non chiediamogli di togliere il dolore dal mondo, né il peso della nostra Libertà irresponsabile! Non l’ha fatto e non lo farà. Eppure è Risorto e ci garantisce che non ci ha dimenticati, come i nostri “amici” quando trovano fortuna. No, anzi! A maggior ragione ora che Lui è Risorto e “siede alla destra del Padre”, vuole che anche noi possiamo sedere con Lui a quel banchetto eterno.
Ma la Vita è Vita, soprattutto quella Eterna, ed ha le sue Leggi non scritte, ma inesorabili: questa è la Vita Eterna, credere nel Figlio, per vivere come Lui ci ha insegnato a vivere. Perché solo ciò è Vita, è Vita vera, è Vita Eterna. Tutto il resto è illusione, è il luccichio demoniaco dei quartieri bene, dell’alta moda, delle notti troppo piccole, per chi ha paura della Luce del giorno.
Paradossalmente, forse, è molto più facile credere ora in Gesù e nella sua prassi liberatrice, credere in questi giorni i cui tutti i nostri miti occidentali stanno cadendo uno ad uno.
Certamente mai come in questi giorni la vita mi aveva offerto la possibilità di far fiorire l’Umanità Nuova propostaci dal Vangelo.
Che lo Spirito del Signore Risorto ci dia il coraggio di questo Passaggio, di questa Pasqua!
Pe. Marco
” alle fronde dei salici “
di Salvatore Quasimodo
E COME POTEVAMO NOI CANTARE
CON IL PIEDE STRANIERO SOPRA IL CUORE,
TRA I MORTI ABBANDONATI NELLE PIAZZE
SULL’ERBA DURA DI GHIACCIO, AL LAMENTO
D’AGNELLO DEI FANCIULLI, ALL’URLO NERO
DELLA MADRE CHE ANDAVA INCONTRO AL FIGLIO
CROCIFISSO SUL PALO DEL TELEGRAFO.
ALLE FRONDE DEI SALICI, PER VOTO,
ANCHE LE NOSTRE CETRE ERANO APPESE,
OSCILLAVANO LIEVI AL TRISTE VENTO.
Sal 137 (136)
Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
“Cantateci i canti di Sion!”.
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.