A margine di Gb 1,13-21; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10
domenica 7 ottobre 2017
Le letture di questa domenica, soprattutto la prima ed il Vangelo, possono riportarci ad una visione di Dio arcaica ed arcana, ad un tempo, in cui la Sua presenza nella vita umana è tanto totalizzante, quanto assolutamente arbitraria e lontana dalla razionalità umana. In realtà, come sempre, abbiamo bisogno di qualche approfondimento in più, per capire cosa c’è dietro questa Parola di oggi.
Innanzitutto la prima lettura, che è una grande e profonda riflessione sulla sfida che il male è per la fede, non è la narrazione di fatti realmente accaduti, bensì un’opera teatrale, per trattare il tema suddetto. Quindi è importante “vedere” l’opera nel suo insieme. In una sintesi brutale possiamo dire, che Dio “premia” il domandare e il contestare di Giobbe, raddoppiando le sue ricchezze; mentre condanna le semplicistiche riduzioni del Suo Mistero alle limitate visioni teologiche dei suoi accusatori. Il brano della Prima Lettura, che segna anche l’inizio del Libro di Giobbe, ci anticipa un po’ le conclusioni del Libro; ovvero il Mistero di Dio e del suo agire trascende decisamente ogni nostro comprendere; di Lui è più quello che non si può dire, che non quello che possiamo balbettare. Quindi la nostra relazione con Lui non può che essere di disparità. Soprattutto noi possiamo e dobbiamo cercare di capire come e che cosa fare, piuttosto che dire o chiedere a Lui ciò che dovrebbe fare.
Seguendo questo solco fino al Vangelo, dobbiamo stare attenti nel leggere questa brevissima parabola come se Gesù non tenesse conto del nostro agire e lo svuotasse di ogni valore. Infatti questo non è l’intento di Gesù. In realtà, come spesso succede nelle parabole, Gesù volutamente usa linguaggi ed immagini ad effetto con il dichiarato intento di scuotere l’ascoltatore, di “svegliarlo” quasi, perché non si fermi a facili interpretazioni, bensì cerchi di approfondire il Suo messaggio.
Ed ecco allora che la parabola non intende riflettere sullo stile, o sul modo di agire del Padre, bensì pretende spingerci a riflettere su chi è il Padre, chi siamo noi e quale relazione esiste tra noi e Lui. E allora scopriamo che, lo stesso Gesù, che ha la “sfrontatezza” di farsi chiamare Dio, Papà, al tempo stesso ci sta dicendo, con altrettanta “sfrontatezza”, o chiarezza, che il nostro rapporto con Lui non è, e mai sarà, paritario. C’è una differenza, che i teologi chiamano ontologica, tra noi e Lui. Lui è il Creatore e noi siamo creati, generati da Lui.
Questa verità banale, lapalissiana, per chi “mastica” la Bibbia da sempre, in realtà, il più delle volte rimane un’idea, una fatto intellettuale, cognitivo, ma non riesce ad impregnare il nostro modo quotidiano di guardare e vivere la vita. Infatti, chi di noi, in un modo o nell’altro, non si è rivolto al Padre, o porta nel segreto della coscienza la convinzione, che il Padre “gli/le debba” qualcosa? In fondo, al di là di tante paure, o sensi di colpa, che ci accompagnano, alla fin fine ci portiamo dentro la segreta convinzione “di aver fatto tutto quanto dovevamo fare”, quindi ci spetta il premio, la benedizione, la fortuna, il successo e quant’altro.
Ebbene, a me pare che questa parabola voglia metterci in guardia da questo pericolo, o smontare tutti le fortezze interiori, che possiamo esserci costruiti, a partire da queste premesse. Infatti, raccontandola, Gesù vuole aiutarci a ricordare che la nostra relazione con il Padre è sempre e comunque di dipendenza. Quindi, innanzitutto, la fede autentica è quella che ri-conosce questa dipendenza e dunque si fa ri-conoscenza, ringraziamento, dono gratuito, perché “tutto ci è già stato dato”.
Qui mi pare stia il punto “dolens” di buona parte della nostra cultura occidentale. Quanto e come portiamo nel cuore questa premessa fondamentale, per vivere la fede evangelica: “Tutto mi è già stato dato”?
Capite che questa prospettiva non cancella, né elude, l’interrogare drammatico di Giobbe, perché è l’interrogare impietoso del figlio, che sa che solo il Padre potrà dargli una risposta. Non va’ a cercarla nel denaro, nell’edonismo, più o meno sfrenato, nel “consumare” ogni minuto di tempo libero e così via.
No, il figlio, che vive autenticamente la sua figliolanza, non cerca e non vuole crearsi una sua visione ed un suo progetto sulla vita, perché tutta la sua gioia sta nel “fare la volontà del Padre”, per ciò si preoccupa continuamente di come e che cosa deve fare, per aiutare ad edificare il Suo Regno, il Regno di Dio appunto.
E quando lo scopre e “fa quello che doveva fare”, è ancora più felice, invece di rivendicare qualche diritto dal Padre, lascia trasparire tutta la sua gioia e gratitudine, al punto che non può trattenersi “dall’invitare altri” a partecipare della sua felicità.
Così la sua gioia e la sua felicità diventano contagiose e non possono che attrarre altri in questo circolo virtuoso.
Capisco che, a questo punto, sarebbe interessante rivedere tante pratiche religiose, anche della nostra realtà più “nostrana”; ma non vorrei occupare troppo la scena. Lascio a ciascuno di voi questo compito “a casa”.
don Marco