Il diritto canonico generalmente è presentato, e si presenta, quale uno degli ambiti più resistenti alla riforma della Chiesa. Le tendenze antigiuridiche, che si sono manifestate soprattutto all’indomani del concilio Vaticano II, confermano come il diritto canonico sia «associato a ciò che frena e ostacola più che sostenere una riforma e un rinnovamento della Chiesa».1 Sorprende piacevolmente, quindi, che dalla Relazione di sintesi della I sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (4-29.10.2023; cf. anche in questo numero a p. 123) emerga una specifica attenzione alla riforma dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica.
In particolare, è messa in luce l’esigenza di chiarire le «implicazioni canonistiche della prospettiva della sinodalità» – in termini sia di sinodalità-comunione che di sinodalità-collegialità –, nonché la necessità di una «revisione del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiese orientali». A riguardo, si parla di un «futuro aggiornamento di entrambi i testi». Sembra così risuonare l’eco profetico di Giovanni XXIII quando, il 25 gennaio 1959, nell’indire il Concilio ecumenico e il Sinodo romano, metteva all’ordine del giorno dei lavori anche l’«auspicato e atteso aggiornamento» del Codice del 1917.
Insomma, dal Sinodo in corso arriva la proposta d’avviare uno studio preliminare per la revisione dell’attuale legislazione canonica (cf. Regno-att. 22,2023,682). D’altronde la ricorrenza appena trascorsa dei 40 anni della codificazione del 1983 è stata in fin dei conti un’occasione mancata. Essa avrebbe potuto rappresentare l’opportunità per mettere in luce le fragilità strutturali che non consentono al Codice d’essere strumento di «comunicazione» del Vangelo in relazione ai «segni dei tempi»2 (tant’è che ormai per determinate materie si registra un’attività di «decodificazione»);3 invece si è rivelata da più parti come il pretesto per celebrarne una presunta attualità che ormai appare superata. Persino per il segretario di Stato card. Pietro Parolin non ci sarebbero «possibili alternative realistiche al presente Codice di diritto canonico», che «per essere cambiato, richiederebbe una previa modifica del Catechismo della Chiesa cattolica, perché è lì che le questioni di contenuto dottrinale descritte nei canoni sono state puntualmente definite».4
Ma se così fosse il diritto canonico non sarebbe altro che una sorta di surrogato della teologia morale, mentre una riflessione che si concentri primariamente sul nucleo normativo delle strutture istituzionali non è più rinviabile. Le proposte emergenti dalla Relazione di sintesi dimostrano che l’operatività di una riforma ecclesiale in prospettiva sinodale per il «futuro della Chiesa» è in stretta correlazione con l’aggiornamento delle norme canoniche.5 Nella Relazione la sinodalità è definita quale «espressione del dinamismo della tradizione vivente»; un dinamismo pneumologico che si riflette nella dinamicità quale nota tipica dell’ordinamento canonico.6
Un cantiere aperto sul papato…
La base di partenza della riflessione è il «desiderio di una Chiesa più vicina alle persone, meno burocratica e più relazionale». Ma come tradurre l’affermazione di questo principio di prossimità in norma giuridica? Le proposte delle madri e dei padri sinodali si muovono tanto su un livello istituzionale quanto su un livello ministeriale, e sono enunciate quasi come serie di appunti lasciati a una successiva fase d’elaborazione.
Il cantiere, insomma, è del tutto aperto. Ma in primo luogo è necessario lavorare a una traduzione interculturale del principio sinodalità, in ragione dell’universalità della Chiesa cattolica, che impone un’attività d’inculturazione del Vangelo nelle varie realtà storiche e sociali. Superate le tendenze assimilazioniste proprie del concilio di Trento, ai giorni nostri tale processo d’inculturazione comporta l’emergere di una Chiesa di fatto sempre più multiculturale nella sua realtà visibile, con la messa in atto di accomodamenti normativi che trovano una rappresentazione nell’articolazione della comunità ecclesiale in Chiese rituali.
Vi è comunque da segnalare un aspetto che appare contraddittorio rispetto all’impostazione generale: nel documento si fa riferimento alla «natura gerarchica della Chiesa» che parrebbe messa a rischio, secondo alcuni, dall’idea del Sinodo quale «organo di deliberazione a maggioranza privo del suo carattere ecclesiale e spirituale». In realtà, la sinodalità esprime, anche da un punto di vista interculturale, una Chiesa che si articola nei termini di «comunione, missione e partecipazione»; il che è molto lontano da una Chiesa presentata con «natura gerarchica» (cf. in questo numero a p. 000).
Nei fatti, ma anche in punta di diritto, questa pretesa natura gerarchica finisce per corrispondere all’assunzione della forma storica di una Chiesa che mantiene una struttura feudale. In effetti, l’ordinamento canonico non conosce la divisione dei poteri e neanche la nozione di diritto soggettivo in senso moderno, quale posizione individuale da rivendicare nei confronti della comunità politica. Nel Codice del 1983 permane ancora il riferimento ai «sudditi». Solo per fare un esempio, a norma del can. 1077, § 1, per una causa grave l’«ordinario del luogo può vietare il matrimonio ai propri sudditi». Una simile disposizione, così formulata, tradisce l’idea, tipicamente medievale, di un vescovo-conte che esercita un potere assoluto su un determinato territorio.
Ed è peraltro fin troppo evidente come la portata canonica del termine «suddito» sia concettualmente distante dalla categoria teologica del popolo di Dio. Deve essere chiaro che la varietà di ministeri e di funzioni caratterizzante una Chiesa sinodale non implica, al contempo, una struttura gerarchica di quest’ultima.
La questione, com’è ovvio, investe innanzitutto il ministero del romano pontefice. Infatti, un ulteriore punto all’ordine del giorno nell’agenda del Sinodo per una revisione del diritto canonico è rappresentato dalla necessità di rintracciare forme e strumenti per un «esercizio più collegiale del ministero papale». Ritorna l’auspicio di papa Francesco espresso nella costituzione apostolica Episcopalis communio (2018):7 il processo sinodale deve incoraggiare a una «conversione del papato (…) che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione» (Regno-doc. 17,2018,532).
Ma il can. 331, nell’affermare la «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» del romano pontefice, conferma la visione imperiale del potere ecclesiale. Bisogna allora domandarsi – anche sul piano del diritto canonico – quanto una potestà così intesa sia conforme al Vangelo, oppure sia il prodotto di una storia più umana che divina, caratterizzata, nel corso dei millenni, da vicende di sopraffazione della dignità umana e della libertà di coscienza. Il risultato di questi processi storici viene poi ammantato dal concetto di diritto divino, che funziona come un «dispositivo di blocco» per i processi di riforma e di rinnovamento della comunità ecclesiale.8
…sui vescovi
Per quanto riguarda il ministero episcopale, la Relazione si chiede se sia «opportuno» ordinare vescovi i prelati della curia romana. Il problema, però, è che il discorso non può essere affrontato sul piano dell’opportunità. Nonostante il Vaticano II precisi la sacramentalità dell’episcopato, si deve segnalare l’assenza di una profonda riflessione sul ruolo e sul ministero dei vescovi, tanto per la teologia quanto per il diritto canonico. Infatti, se da un lato il Concilio incardina il vescovo nella Chiesa locale, dall’altro il diritto canonico codifica la prassi ecclesiale di vescovi ai quali, non essendo affidata la cura di una diocesi, viene attribuito il titolo di diocesi ormai estinte: i vescovi «titolari», definiti in maniera residuale rispetto a quelli diocesani (can. 376).
Storicamente, si trattava di vescovi nominati per sedi «in partibus infidelium», cioè che insistevano su territori conquistati dagli «infedeli», mentre oggi ne sono titolari, per lo più, oltre a quelli ausiliari, i vescovi che ricoprono incarichi nella curia romana. Questi casi rendono evidente che l’episcopato è rappresentato alla stregua di un titolo onorifico, una tappa del cursus honorum del chierico, a discapito della sacramentalità del ministero. Una tale visione dell’episcopato e del suo esercizio inevitabilmente si riverbera su una certa idea di Chiesa particolare.
La Chiesa particolare è «la porzione del popolo di Dio (…) in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica» (can. 369). Il principio teologico, codificato in punta di diritto, è chiaro. Eppure, le diocesi sembrano più delle circoscrizioni amministrative della Chiesa universale, case succursali di una casa-madre (un modello, quest’ultimo, funzionale a rispondere alle esigenze d’instaurare una res publica christiana, in piena riforma gregoriana). Così i vescovi diventano una sorta di funzionari, di burocrati, di meri esecutori della volontà di Roma.
Nella Relazione si fa pure riferimento all’esigenza di «definire strutture e processi di verifica regolare dell’operato del vescovo». In questa prospettiva, la «cultura del rendiconto» è interpretata quale «parte integrante di una Chiesa sinodale che promuove la corresponsabilità». In termini d’esercizio del ministero episcopale, i casi di abusi sessuali – si legge ancora nella Relazione – rendono evidente la difficoltà per il vescovo di conciliare il ruolo di padre con quello di giudice, al punto che ci s’interroga sull’opportunità d’affidare il «compito giudiziale» ad altra istanza (cf. anche in questo numero a p. 78).
…sui laici
Il tema non è nuovo. In un seminario sulla riforma della Chiesa promosso dal Coordinamento delle associazioni teologiche italiane (CATI; cf. il manifesto finale in Regno-att. 6,2022,183), il vescovo Erio Castellucci sottolineava: «Il ministero episcopale è certamente sovraccarico rispetto al suo primo compito, di guida pastorale di una Chiesa particolare (a volte anche due…); non è possibile che sia una sorta di collo d’imbuto dal quale tutto dovrebbe passare e da cui tutto dovrebbe partire; è necessario pensare seriamente alla condivisione reale della responsabilità, ad esempio studiando la figura orientale dei corepiscopi, o simili, anche per la Chiesa latina».9
In questo «collo d’imbuto» rappresentato dal ministero episcopale, che significato assume il richiamato principio della corresponsabilità, che non può essere compreso solo negativamente in termini di «rendiconto», bensì positivamente quale assunzione di ruoli di leadership all’interno della comunità ecclesiale?
La domanda apre alla questione dell’assunzione da parte delle laiche e dei laici di posizioni di governo nella Chiesa (nella Relazione sinodale, a proposito delle donne, si parla della necessità di garantire «ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero»). Tra i principi che sorreggono la riforma della curia romana vi è il seguente: «Qualunque fedele può presiedere un dicastero o un organismo, attesa la peculiare competenza, potestà di governo e funzione di quest’ultimi».10
Però, rimane evidente il cortocircuito con il can. 129: sono «abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell’ordine sacro», mentre «nell’esercizio della medesima potestà i fedeli laici possono cooperare». La correlazione tra potestà data dall’ordine e potestà di giurisdizione, in termini giuridici, riduce la corresponsabilità ecclesiale delle laiche e dei laici in termini di «cooperazione» alla potestà di governo dei ministri ordinati.
Di conseguenza, nella Chiesa locale gli organismi di partecipazione ecclesiale sono ricondotti in ultima analisi alla valutazione (discrezionale) del vescovo. Quindi, il Sinodo si chiede di «rendere più operativi, anche a livello di diritto, gli organismi diocesani di corresponsabilità». In effetti, a norma del can. 473, il consiglio episcopale è costituito quando il vescovo «ritiene opportuno», mentre, a norma del can. 511, il consiglio pastorale diocesano è istituito «se lo suggerisce la situazione pastorale». Anche i consigli pastorali parrocchiali sono costituiti «se risulta opportuno a giudizio del vescovo diocesano», secondo quanto disposto dal can. 536. Il legislatore canonico è chiamato dal Sinodo a eliminare queste clausole condizionali, in maniera da rendere obbligatori gli organismi di partecipazione ecclesiale, ampliandone pure gli ambiti d’applicazione.
Come si vede, l’aggiornamento dei due Codici di diritto canonico in chiave sinodale richiede non tanto sparuti interventi di maquillage normativo, bensì una revisione strutturale dell’intero impianto ministeriale e istituzionale della Chiesa cattolica. A cominciare dall’esigenza di codificare il processo sinodale in atto, come interpretato e voluto da papa Francesco. Attualmente, il Sinodo a livello universale è «un’assemblea di vescovi» (can. 342) che aspira a rappresentare l’intero popolo di Dio, mentre è necessaria l’istituzione di un vero e proprio Sinodo del popolo di Dio, a composizione paritaria, nei ministeri e nei generi. Insomma, probabilmente è arrivato il tempo d’avviare un processo ecclesiale costituente che porti a una nuova, terza, fase di codificazione.
Luigi Mariano Guzzo *