“Il grande sforzo che dobbiamo affrontare oggi è quello di ripensare noi stessi, non essendo più
la totalità, forse nemmeno la maggioranza”, scrive Roberto Repole, arcivescovo di Torino.
Come sarà la Chiesa tra dieci, venti, trent’anni? Come ragionare di fronte al forte calo delle
presenze religiose o alla notizia della chiusura di intere parrocchie?
Gli studiosi generalmente distinguono tra i concetti di cristianesimo e cristianesimo. Cosa si
intende per cristianità? Proprio quel nuovo modo di essere cristiano, in cui la Chiesa non era più
una minoranza ma una maggioranza, anzi, era diventata la totalità. L’appartenenza alla società
civile e l’appartenenza alla Chiesa erano diventate una cosa sola. Con tutto ciò che ne consegue.
Mentre la cultura imperiale dominava, la Chiesa assorbiva quella cultura e quella mentalità. In
relazione all’imperatore, che era diventato anch’egli cristiano, si cominciò a dire che il papa aveva
un potere maggiore, che però si esprimeva nelle stesse forme del potere dell’imperatore. Emerse
quello che oggi chiamiamo “clericalismo”: c’era chi si considerava più cristiano degli altri.
Per farla breve, dal IV secolo in poi abbiamo ereditato questo nuovo modo di essere Chiesa
maggioritaria, che si è tradotto in molte forme strutturali esterne. La Chiesa si ramificò in tutti i
territori, coprendoli interamente con i suoi servizi. A un certo punto si è pensato che la missione
dell’evangelizzazione fosse compiuta, cioè che non ci fosse più nessuno da convertire.
Solo la scoperta delle Americhe ha riattivato l’idea dell’annuncio. Negli ultimi secoli, sotto i colpi
della cultura moderna, la sovrapposizione tra la società civile e la Chiesa ha cominciato a
sgretolarsi. La teologia dell’Ottocento e, soprattutto, del Novecento, il magistero del secolo
scorso, soprattutto grazie al grande evento nella Chiesa che fu il Concilio Vaticano II, cominciarono
a rendersi conto che era necessario ripensare la Chiesa non più secondo il modello della
maggioranza “cristianità”.
Quando finì l’epoca costantiniana, l’epoca del cristianesimo, iniziò la fase post-cristiana. Sono
passati sessant’anni dal Concilio. È stata una lunga storia, ma oggi dobbiamo essere consapevoli
che siamo la stessa Chiesa di sempre, solo con forme rinnovate. Siamo di nuovo una Chiesa – si
può dire – più simile a quella dell’inizio della storia cristiana.
Il grande sforzo che dobbiamo affrontare oggi è quello di ripensare noi stessi, non essendo più la
totalità, forse nemmeno la maggioranza. Riscoprire la freschezza degli inizi, quando i cristiani
erano una minoranza. Sappiamo di essere a un guado, in un momento di passaggio: ciò che
abbiamo ereditato, il modo di essere Chiesa dei secoli passati, non esiste più. Si tratta di passare
ad un’altra forma, quella che però non abbiamo ancora in mente, e soprattutto non abbiamo nella
carne. Questa situazione può generare un po’ di disorientamento, un po’ di paura. Oggi, la Chiesa
in Europa continua ad essere riconosciuta come un’istituzione molto importante. Ad esempio, per
quanto riguarda l’impegno sociale. Il papa è invocato come un’autorità mondiale, come un
mediatore per la pace in Ucraina, è un’autorità riconosciuta ben oltre il mondo cristiano.
D’altra parte, la Chiesa sta perdendo la sua capacità di informare i comportamenti delle masse:
penso alle cosiddette questioni etiche, alla questione dell’affettività, alla difesa della vita. Su questi
temi, la Chiesa ha sempre meno influenza sull’opinione pubblica e molto poco sui
comportamenti. Sono convinto che nel mondo di oggi, e anche in quello di domani, la Chiesa
divenuta minoranza continuerà a collaborare in mille modi alla vita degli uomini e delle donne e ad
intervenire là dove c’è povertà e umiliazione.
Povertà materiale, ma anche spirituale. Per quanto riguarda l’impegno sociale, per continuare ad
essere Chiesa di Gesù Cristo e ad essere vigilanti, dovremo prestare molta attenzione in futuro per
non accontentarci di agire una “pseudo-carità”, separata dall’adesione a Gesù. La Chiesa non può
limitarsi ad aiutare i poveri, dovrà essere profetica per non limitarsi ad aiutare le vittime
della società ipercapitalista, che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Una
Chiesa radicata in Gesù, anche se minoritaria, non si accontenterà di mantenere lo status quo e
lavorerà per disegnare una società più giusta ed equa, senza persone strutturalmente condannate
alla marginalità.
Inoltre, ci chiediamo dove siano finiti i giovani che hanno lasciato le chiese. La Chiesa oggi non è
solo una minoranza, ma un rapido invecchiamento. Di fatto, non solo la Chiesa, ma tutta la società
occidentale. I motivi sono molteplici. C’è poca fiducia nella vita e nel futuro, viviamo pochi
orizzonti di speranza, anche perché siamo immersi in una cultura che non offre alcun barlume di
speranza.
Tenere d’occhio la cultura nichilista è uno dei grandi compiti dei cristiani in questo tempo. La
scarsa adesione dei giovani all’esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più
percepita come una risorsa spirituale. È una povertà grave, se consideriamo la straordinaria
ricchezza della nostra tradizione spirituale.
Viviamo in un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità. I giovani chiedono proposte
elevate. Ma, ripeto, la Chiesa può offrire solo ciò che vive. In definitiva, credo che molti cristiani
non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri. Credo
che, in modo sottile, molti cristiani assumano il nichilismo contemporaneo, o, se si preferisce,
quella forma di nichilismo che è il rilassamento assoluto, il relativismo.
Una cosa vale l’altra. Ma non rimarrò nella Chiesa e non sarò un cristiano se una cosa vale
l’altra. Sono cristiano perché credo fermamente in quello che dice Pietro nel libro degli Atti: che
non c’è altro nome in cui c’è salvezza se non Gesù Cristo.
Ti chiedo perdono, ma per meno di questo non potrei essere cristiano.