Carissimi
comincio a scrivervi questa riflessione il giorno 23 de Marzo 2015, vigilia del 35° anniversario del martirio di Mons. Romero, perché spero di inviarvela, come regalo, il giorno stesso del martirio. E la prima intuizione, che vorrei condividere con voi, è il senso di profondo sollievo, che provo al poter scrivere la parola: martire. Sì, perché per trentacinque anni abbiamo dovuto, prima difendere, poi giustificare, tutte le volte che usavamo questo titolo. Eppure, a tutte le persone semplici e in buona fede, sembrava evidente che la sua morte fosse un martirio; se non altro, per le condizioni stesse dell’esecuzione: mentre consacrava l’Eucaristia. Durante la storia millenaria della Chiesa, quanti martiri hanno avuto questo “onore”: veder suggellata la loro dedizione a servizio del Regno nel momento più alto ed emblematico della vita di un cristiano: il Memoriale del Martirio di Gesù? Io, che non sono uno specialista in materia, non ho conoscenza di molti casi.
Eppure la Chiesa ha impiegato tutto questo tempo, per arrivare, finalmente, a questa proclamazione ufficiale; infatti il giorno 23 di Maggio è prevista la celebrazione ufficiale della canonizzazione. Di fronte a questi dati, per certi versi inquietanti, penso che sia necessario chiedersi: perché? Perché c’è voluto tanto tempo per arrivare a questo riconoscimento? Perché c’è voluto un Papa latinoamericano per “sbloccare” la situazione? Perché, soprattutto qui in America Latina, questa figura ha acceso tanto gli animi ed ha alimentato i più animati dibattiti e conflitti?
Certamente, per rispondere a queste domande, sarebbe forse più giusto inoltrarsi nell’analisi dei molti fattori, che hanno accompagnato quel tragico evento. Io, come è nella mia indole, vorrei tentare di evidenziare un paio di elementi, forse più determinanti di altri.
Un primo elemento lo introduco, citando una frase, apparsa in questi giorni, pronunciata dal postulatore della causa di canonizzazione, Mons. Paglia: “In questo ritardo della Chiesa, c’era inscritto un provvidenziale piano divino: attendere il primo Papa latinoamericano, per canonizzare un martire dell’America Latina”. Certamente si può discutere su questa giustificazione a- posteriori, ma a me serve per evidenziare un fatto, che oggi stiamo “vivendo sulla nostra pelle”, nelle forti resistenze di alcuni vescovi, preti e seminaristi di fronte al pontificato di Papa Francesco: la difficoltà di ampi strati della Chiesa occidentale, soprattutto europea e nordamericana, nel capire la Chiesa latinoamericana, ricca di martiri e di contraddizioni. Come succede nella relazione parentale genitori-figli, molte volte i genitori fanno fatica a capire e a relazionarsi i propri figli. Allo stesso modo, mi pare, che nessuna Chiesa ha un legame di “figliolanza” con la Chiesa europea, come la Chiesa dell’America Latina: è il frutto maturo della Chiesa Cattolica europea, che tentava di reagire all’investita protestante. Le devozioni ai Santi e alla Madonna, di tipo ispano-lusitano, continuano ad essere l’asse portante della religiosità di queste terre.
Eppure, in questa esuberanza di devozionalismo, al limite dell’eresia, nascono le Comunità di Base, la Chiesa dei ministeri laicali, della lettura popolare della Bibbia, la Teologia della Liberazione, i martiri della Giustizia, solo per citare gli esempi più emblematici. Esattamente in queste antinomie e in questi estremismi noi occidentali, abituati nel ricondurre tutto ad un qualche ordine razionale, facciamo fatica a capire ed a dialogare alla pari con questa nostra “figlia”, che a noi sembra non uscire mai dall’adolescenza. Come tutti gli adolescenti fa dell’esagerazione la sua cifra distintiva; il che ci sfugge e ci irrita, perché non riusciamo a controllarlo dentro uno schema razionale. Infatti, se fate attenzione, questa è la chiave di lettura prevalente, con cui viene presentato anche Papa Francesco, da parte dei suoi detrattori: un buon uomo, forse anche santo per la generosità, ma assolutamente ingenuo; semplicistico; idealistico, ma incapace di capire la complessità della realtà (dove per realtà si sottintende, senza alcuna giustificazione, il sistema capitalista e il mondo come lo pensiamo noi).
Dentro questa incomprensione di fondo dell’America Latina, che ha attraversato i pontificati di Giovanni Paolo II° e Benedetto XVI°, dobbiamo collocare questo grave ritardo nella canonizzazione di Romero, al punto che, di entrambi, si citano varie testimonianze private, in cui avrebbero riconosciuto il carattere di martirio alla sua morte; ma, nessuno dei due ha avuto il coraggio di compromettersi, pubblicamente e teologicamente, nel dichiararne la santità, nonostante i numerosi strappi al protocollo e alle procedure nella proclamazione dei Santi, non ultima quella di San Giovanni Paolo II°.
Normalmente, quando si giunge a questo punto della riflessione si invoca la vituperata “prudenza cristiana”; ovvero, bisognava lasciar calmare gli animi, viste le grandi divergenze circa la sua santità. Sia ben chiaro, la prudenza cristiana è e continua ad essere una virtù. Diventa un problema quando viene usata “ad usum delphini”, per nascondere la paura di conflitti e persecuzioni a causa del Vangelo.
E qui veniamo forse al nocciolo della questione, il punto “dolens”, che a mio avviso vede la gran parte dei fedeli occidentali impreparati: la dimensione testimoniale, conflittuale, della fede. Come ho già avuto modo di dire in altri scritti, noi Chiese occidentali, con percorsi che non è il caso di analizzare in questo scritto, abbiamo anestetizzato questa dimensione della fede cristiana. Probabilmente questo processo ebbe inizio già nel momento in cui si è cominciato a sdoppiare l’unica parola greca “martyria” nelle due parole italiane: testimonianza e martirio; ovvero, ciò che originariamente era una cosa sola, perché non ci può essere vera testimonianza, se non si è disposti a dare la vita per il Vangelo, ebbene ciò che originariamente era una cosa ed una parola sola, si è trasformato in due parole, che progressivamente hanno dato vita a due concetti, legati tra loro, ma relativamente indipendenti. Così che, se parliamo di testimonianza cristiana, pensiamo di essere più o meno tutti d’accordo, perlomeno sulla sua necessità. Quando comincia ad entrare in gioco la parola “martirio”, allora beh, vediamo un po’, forse è il caso di introdurre qualche distinguo. E così, surrettiziamente, benché nessuno sia veramente responsabile, l’idea e, ancor più, la pratica del martirio cristiano diventano caso straordinario, notizia da prima pagina, come devono essere tutti gli eventi straordinari.
Di questo passo arriviamo fino al paradosso, che, forse, solo o soprattutto nell’ America Latina, figlia degenere, poteva succedere; ovvero, coloro che hanno preso a serio la fede in Gesù di Nazareth e con Lui e per Lui hanno accettato di vivere le Beatitudini, fino in fondo, fino al martirio, ebbene costoro vengono tacciati dai loro confratelli di fede, figli legittimi di quella Chiesa razionalmente corretta, di essere loro la causa dei conflitti e delle violenze. E vi assicuro che questo assurdo paradosso non si è verificato eccezionalmente nel caso di Mons. Romero, perché io lo vivo quotidianamente nel mio ministero. In altre parole, non sono più le ingiustizie e l’oppressione le cause dei conflitti, bensì la testimonianza, coerente e radicale, del Vangelo. E così, in una drammatica e, al tempo stesso provvidenziale attualizzazione evangelica, si realizzano incredibili inversioni dei ruoli e dei significati, degne della Passione di San Giovanni. Certamente queste inversioni, incomprensibili per una fede razionalmente corretta, hanno impedito ai due Papi anteriori di compiere il gesto della beatificazione di Romero. Probabilmente erano sinceramente e profondamente disorientati di fronte all’apparizione così dirompente del paradosso evangelico.
Peggio ancora, il caso di Romero porta alla luce il fatto che questo paradosso non si realizza solamente nel rapporto Chiesa-mondo. In questo caso la questione è tutta interna alla propria Chiesa; infatti, tanto il martire, come i suoi aguzzini, sono cristiani, battezzati, più o meno in regola con il Diritto Canonico e con le norme sacramentali; perlomeno questa era la loro autocoscienza in quel momento. Infatti, sia Mons. Romero, che i suoi aguzzini, quando ricevevano l’Eucaristia, lo facevano per alimentare e sostenere il loro impegno a servizio del Regno di Dio (infatti Romero era visto come un comunista, che stava corrompendo la Chiesa). Ovvero portare alla luce le varie situazioni di morte e violenza, insite nelle infinite situazioni di ingiustizia della nostra società, viene presentato come un generare, un fomentare il conflitto e la violenza. In realtà queste accuse, indebite e gratuite, erano e sono la forma più sottile e perversa di difesa da parte di chi, avendo escluso la Croce dall’orizzonte della sua fede, vede il martirio come un fallimento ed una perdita. A questo punto non possiamo non porci la domanda, forse, più inquietante e pericolosa: chi è la Chiesa di Gesù di Nazareth? Come deve essere, quali sono i tratti peculiari e irrinunciabili della Chiesa di Gesù? Chiaramente mi pongo questa domanda, non tanto a livello teorico e teologico, bensì a livello comportamentale e di opzioni di vita. Come già anticipavo, percepisco molto bene i rischi insiti in queste domande e, forse, è bene non arrivare a delle risposte troppo chiare e distinte. Detto ciò non possiamo non porcele, pena il ripetersi delle contraddizioni e delle inversioni avvenute con il martirio di Mons. Romero.
Vorrei concludere citando una notizia, che ho letto in questi giorni, in occasione dell’annuncio della beatificazione. La Chiesa Luterana, la Chiesa Anglicana e la Chiesa Vetero-catttolica già venerano Mons. Romero come martire della giustizia. Ovvero confrontarci e convertirci alla prassi di Gesù è il cammino privilegiato e più sicuro per un autentico ecumenismo.
Che questa conversione possa cominciare in tutti noi a partire dalla contemplazione del Mistero Pasquale, che vivremo la prossima settimana.
Pe. Marcos