Questa mia riflessione vorrebbe riprendere gli spunti emersi negli incontri biblici di questa settimana sul tema della patrimoniale e della giustizia distributiva, tenendo conto anche di questa ricostruzione storica fatta dal prof. Bruni.
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/luigino-bruni-capitalismo-meridiano
Innanzitutto è bene precisare che l’articolo non esprime un particolare apprezzamento, per il fatto che il Rinascimento fiorentino sia stato possibile grazie anche ai soldi dei mercanti usurai.
L’autore constata e descrive questo fatto come un particolare fenomeno storico. Così come noi potremmo costatare che le fondazioni di Bill Gates, o di Jeff Bezos, fanno anche cose buone ed utili; oppure come i miei “fazendeiros” in Brasile, che “donano” i loro capi di bestiame per le feste patronali.
Purtroppo, questa sorta di “riciclaggio religioso” del denaro ingiustamente accumulato non legittima in alcun modo la sua provenienza.
Anzi, il nocciolo dell’articolo sta esattamente nel mostrare come lo sdoganamento, la giustificazione morale del tasso d’interesse, da parte del solito teologo di corte, ha portato al superamento delle riserve medievali sul tema, pur essendo queste ben più evangeliche.
Tutto ciò, però, è solo parte della Storia della Chiesa, con le sue luci e le sue ombre. Ma guai a noi se dovessimo prendere questo, o qualsiasi altro momento di tale storia, come esemplare e paradigmatico. Infatti, per la Chiesa di ogni tempo il paradigma ed il riferimento devono essere Gesù e la prima Comunità cristiana.
Ogni epoca della Storia deve essere valutata alla luce di quel frammento di Storia abitato in modo singolare dall’Incarnazione del Verbo.
Ecco allora che la prassi del Verbo incarnato deve essere il criterio di discernimento del cristiano e della Chiesa di ogni epoca.
Paradossalmente, però, nonostante il Vangelo e gli Atti degli Apostoli siano inequivocabili nel mettere in luce l’antitesi Dio-denaro “Non potete servire a Dio ed al denaro” Mt 6,24, ebbene, nonostante ciò, la Chiesa qui ha abbassato la guardia più che su altre questioni poste dal Vangelo.
La mia sensazione è che, dalla di Anania e Saffira (At 5,1-11) in poi, la Chiesa abbia, più o meno, mantenuto una sostanziale fedeltà teologica nel denunciare l’immoralità dell’arricchimento personale, a fronte di una prassi dei cristiani a dir poco lacunosa ed incoerente. Tant’è che ancora oggi il fatto che un cristiano sia ricco e goda liberamente dei suoi beni non costituisce minimamente un problema.
Ovviamente, quando parliamo di ricchezza, facciamo riferimento a quei beni che la persona, o gruppi di persone, ritiene suo patrimonio personale, di cui disporre indiscriminatamente, a tal punto che un intervento politico come la patrimoniale viene visto come un furto da parte dello Stato.
Altra cosa è la ricchezza in senso generale, come produzione di beni. A questo livello non si pone il problema normalmente, benché la “Laudato sii” ci metta in guardia sul fatto che ormai anche la stessa produzione di beni va rivista e ripensata, tenendo conto delle risorse disponibili sul pianeta Terra.
Tornando però al cuore della nostra riflessione, la questione a mio avviso drammatica è che, discutendo su questi argomenti, anche noi cristiani siamo più preoccupati nel mettere in luce aspetti legittimi, ma secondari, piuttosto che denunciare indignati lo scandalo dell’appropriazione indebita dei beni della Creazione; dove l’indebito inizia quando si supera la soglia della necessità in vista di una vita dignitosa. Infatti, quando un cristiano comincia ad accumulare dei beni non può sfuggire alla domanda: perché lo sto facendo? Ovvero perché sto accumulando al di là ciò che mi serve per vivere dignitosamente? Indubbiamente la risposta a queste domande deve lasciata alla libertà ed alla coscienza del singolo credente, posto a tu per tu con Dio.
Di certo però la banda di oscillazione tra le varie risposte non può essere infinita.
Infatti, se è vero che nessuno può permettersi di giudicare chi riesce a rinunciare liberamente anche alle necessità minime, come S. Francesco; è invece vero che ci sono delle soglie, determinabili comunitariamente, o politicamente, oltre le quali l’accumulo non si giustifica,
dunque è immorale.
Ecco perché un intervento politico, che sia la patrimoniale, piuttosto che una riforma fiscale, non solo è legittimo, ma anzi è innanzitutto doveroso. Di fatto, è ormai evidente a tutti che, nel mondo reale segnato dal peccato originale, né l’appellarsi alla buona volontà dei singoli, né tantomeno
alla mano invisibile del mercato, riesce a distribuire in modo equo i beni che vengono prodotti dalle società umane.
In questo senso, da parte di noi cristiani, prima di lasciarci coinvolgere in discussioni minuziose sugli 0 virgola dell’una o dell’altra proposta, dovremmo essere i portabandiera di una sensibilizzazione di massa, per chiedere a gran voce che si metta a tema la questione e si avviino i primi timidi tentativi di redistribuzione dei beni prodotti sulla Terra.
Senza delle politiche serie, quanto radicali, di riduzione degli scandalosi divari economici tra gli esseri umani, parlare di sviluppo e di emancipazione è solo una bugia molto ben camuffata.
Pe. Marco