Forse qualcuno di voi, molto più attento alle vicende della Diocesi di Milano, aveva notato che, tra i sacerdoti ordinati sabato scorso nel Duomo di Milano, ve n’era uno dai connotati non certo italiani: don Esler Salatiel Miranda Cruz. Per quei misteriosi giochi della Provvidenza, ho avuto modo di conoscerlo brevemente giovedì sera, durante una riunione della pastorale dei migranti del decanato di Saronno. Pur cercando di seguire le drammatiche vicende, che affliggono la società e la Chiesa nicaraguense, quando si ha che fare con un testimone diretto della realtà, il livello della comunicazione cambia radicalmente.
E così, seppur attraverso poche fugaci battute, sono riaffiorate nella mia memoria i sentimenti, belli e drammatici, di quegli anni giovanili del decennio d’oro nicaraguense: gli anni ’80. Probabilmente molti di voi lettori, come me non più giovani, ricorderanno come il grande sogno della “rivoluzione sandinista” divenne un riferimento fondamentale per i vari movimenti sociali sparsi sul Pianeta. Anche dall’Italia non pochi attivisti e volontari passarono mesi, o anni, della loro vita in Nicaragua, per sostenere quella rivoluzione, ma anche per lasciarsi ispirare dalla prassi liberatrice di quel popolo.
In realtà, quell’esperienza ebbe delle caratteristiche peculiari, che invece non si realizzarono nel vicino El Salvador. In particolare la rivoluzione sandinista era la realizzazione storica della felice confluenza tra il marxismo latinoamericano e la Chiesa progressista di quel continente, rappresentata dalla Teologia della Liberazione e dalle Comunità di base. Questa convergenza, consolidatasi durante la lotta insurrezionale degli anni ’70, si solidificò durante il primo governo sandinista, che vedeva la partecipazione di ben quattro religiosi cattolici. In questo quadro inevitabilmente semplificato, mi preme però ricordare l’apporto positivo, seppur titubante, di uno dei pochi presidenti USA degni di ammirazione: Jimmy Carter. Senza la sua incerta, ma attenta approvazione, probabilmente non avremmo avuto quell’esperienza significativa, che fu il primo governo sandinista.
E poi? E poi, nel breve volgere di qualche anno, cominciò il declino, che non a caso contò sulla convergenza, se non l’alleanza, dei due leader mondiali più influenti di quegli anni: Ronald Reagan e Giovanni Paolo II°. Non posso, in questo spazio così semplice, ricostruire questa scellerata convergenza. Penso che basti ai più ricordare due riferimenti simbolici fondamentali: la grande trama americana legata allo scandalo “Irangate”, per finanziare i Contras, ovvero i fuoriusciti della dittatura di Somoza, e l’umiliazione inferta in mondovisione a Pe Ernesto Cardenal, da parte di Giovanni Paolo II°, durante il suo arrivo all’aeroporto di Managua. Certamente, se quella visita fosse stata ciò che avrebbe dovuto essere, ovvero una visita apostolica e non quella del capo dello Stato Pontificio alleato degli USA, la storia del Nicaragua e del mondo avrebbe avuto un altro corso. Non mi soffermerò a ricostruire le nefandezze prodotte da Reagan in Nicaragua; anche perché il personaggio non ha bisogno certo di ulteriori “lettere di presentazione”. Ciò che è scandaloso è che lui abbia avuto la benedizione e l’appoggio del Vicario di Cristo di quegli anni.
Perdonatemi, se potete, questa insistenza e questa prolungata introduzione, ma penso fosse necessaria per poter capire le radici dell’attuale situazione nicaraguense. Infatti, il sacerdote sopra citato, come molti altri, è stato mandato in Italia dal suo Vescovo, per fuggire dalla grande persecuzione, scatenata dal presidente, Daniel Ortega, e dalla moglie, Rosaria Murillo, contro tutte le voci d’opposizione, tra cui anche la Chiesa cattolica. Basti ricordare che il Vicario generale dell’Arcidiocesi di Managua è stato praticamente costretto dal Papa ad allontanarsi dal paese, nel timore che potesse finire come Dom Oscar Romero. Ma come mai si è giunti a questo punto? Che cosa ha portato il primo presidente sandinista, Daniel Ortega appunto, a divenire questo terribile tiranno?
Indubbiamente, innanzitutto, una sua predisposizione di fondo, oltre che una serie di scelte personali e politiche. D’altro canto non possiamo nasconderci che la feroce opposizione di Ronald Reagan, benedetta dal Papa, fecero polarizzare le posizioni in quegli anni, nell’estremo tentativo di salvare la rivoluzione. Ma si sa che in tempo di guerra le mediazioni saltano, come anche le sfumature della mediazione politica. Dentro la Giunta rivoluzionaria prevalse questa figura, probabilmente più decisa e spregiudicata. Al tempo stesso, durante la guerra contro i Contras, molte regole democratiche furono sospese ed il popolo si ritrovò ad essere governato dall’ennesimo uomo forte.
E’ vero che nel 1990 Ortega perse le elezioni, ma Violeta Chamorro, sostenuta dagli USA, non era certamente intenzionata a continuare l’esperienza sandinista originaria.
Quando Ortega vinse di nuovo le elezioni nel 2006, pur appellandosi alla sua origine sandinista, di fatto i piccoli germogli del primo governo sandinista erano stati distrutti. Da qui cominciò la sua inesorabile ascesa come dittatore, arrivando a controllare l’apparato statale attraverso i suoi tredici figli. A partire dai moti studenteschi del 2018 e poi dalle manifestazioni promosse dai pensionati, si calcola che circa 2000 persone siano già state uccise. Ogni forma di dissenso contro il governo, o è stata repressa, o è stata costretta all’esilio. Innumerevoli sono stati gli attacchi a Chiese, o ad edifici ecclesiastici; non ultimo l’incendio appiccato alla cattedrale di Managua. Tutto ciò nel sostanziale silenzio della grande stampa internazionale.
Questa piccola riflessione nasce in risposta all’appello di don Esler, che, ripetendo un ritornello frequente sulla bocca degli oppressi, nel nostro breve incontro diceva: “Noi non sappiamo più come farci sentire. Il nostro paese è troppo piccolo, per ricevere l’attenzione internazionale; anche se è vittima della nuova guerra fredda: quella tra la Russia dello zar Putin e gli USA delle solite multinazionali”.
Non potendo prolungare troppo questa riflessione, vorrei avviarmi verso la conclusione, richiamando ancora una volta la responsabilità che abbiamo come cristiani d’interessarci e di sporcarci le mani in prima persona, per portare il seme del Vangelo dentro le realtà temporali. Ovvero, è fondamentale innervare tutte le strutture sociali e politiche con la linfa evangelica, per evitare che vengano lasciate in balia dello spirito della divisione e della sopraffazione, il diavolo, che deve rendere questo mondo un inferno, per spingerci alla rivolta contro il Creatore.
Se siamo cristiani non possiamo accettare questa deriva e, soprattutto, dobbiamo scendere nell’arena della società e contribuire ad umanizzare le sue strutture, prima fra tutta quella dell’autorità.
Pe. Marco