In questa IV° Domenica del Tempo pasquale, come di costume, si celebra la “Giornata di preghiera per le vocazioni”; ma quali vocazioni? E sì, perché ciò che era ovvio, quando è stata istituita la Giornata, ora non lo è più, grazie a Dio… Infatti, se andate a vedere le motivazioni che portarono all’istituzione di questa Giornata, lo scopo principale era quello di pregare per le vocazioni sacerdotali, che all’epoca erano le vocazioni tout court. In realtà, con una buona dose di ipocrisia, se andiamo a leggere i vari messaggi legati a questa Giornata, noterete che ormai l’enfasi va sulle vocazioni in generale, su tutte le vocazioni nella Chiesa.
Tant’è. Sta di fatto che, per questa occasione, si legge regolarmente questo brano del Vangelo di Giovanni, detto del Buon Pastore. L’intento, ovviamente, è stabilire il parallelismo tra il Pastore-Gesù e tutti gli altri pastori, vescovi e sacerdoti in primis. Fermo restando la buona intenzione di questo parallelismo, rimane il fatto che anche lui, il parallelismo, ha contribuito pesantemente nell’alimentare il clericalismo. Infatti, al di là della buona o cattiva volontà dei singoli, il fatto che degli uomini, pur con tutti i distinguo del caso, partecipino della pastoralità di Gesù, fa sì che questi uomini si sentano e vengano collocati in una dimensione intermediaria tra Dio e gli uomini; quella che in realtà spetta solo a Gesù. Detto ciò, il singolo prete, o vescovo, può essere la persona più santa di questo mondo e donarsi totalmente ai fratelli; ma il problema rimane.
In realtà il testo di Giovanni non autorizza al parallelismo sopracitato, benché la Chiesa lo abbia introdotto lungo i secoli. Infatti, se andiamo a rileggerci il testo attentamente, possiamo notare che Gesù parla sempre in prima persona “Io sono il Buon Pastore” e, quando usa il pronome in terza persona, lo fa solo per descrivere le caratteristiche generali del Buon Pastore. D’altro canto, quanto Gesù dichiara in questo brano era già stato profetizzato nell’ AT. Infatti qui sentiamo gli echi di Ger 31 e, soprattutto, di Ez 34,8.11-12: “Com’è vero ch’io vivo, – parla il Signore Dio – poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d’ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge – hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge…Perché dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine…”.
Quindi, esattamente per questa incapacità/impossibilità dei pastori di rendere conto di questo servizio, JHWH s’impegna a farsene carico personalmente. Ecco perché vanno prese molto sul serio, ovvero per quello che sono, le parole di Gesù di oggi: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Certamente in questo caso, come anche nel caso di altre parole-chiave, quali “padre” e “maestro”, la Chiesa è stata perlomeno disinvolta nell’interpretare le parole di Gesù, per attribuirle ad alcuni cristiani.
Invece, a me sembra, che Gesù ci indichi chiaramente una categoria con la quale possiamo assimilarci a Lui e nella quale vivere tutte le vocazioni nella Chiesa: è quella del servo/servizio. Infatti, in Gv 13, 14-15 ci dice: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi.”. In ciò l’emulazione di Gesù non solo è possibile, ma è addirittura auspicabile!
Certamente in ogni vocazione si parla anche del servizio, ma viene un po’ sempre collocata come uno degli attributi, una caratteristica, di ogni vocazione. Invece il servire è la caratteristica tipica del cristiano, è ciò che lo assimila a Gesù. Le specifiche vocazioni, allora, diventano, né più né meno, che una specificazione, una declinazione di questa opzione fondamentale.
Ecco allora che, a partire dalla domanda fondamentale, che ogni cristiano si dovrebbe porre: Signore cosa vuoi che io faccia? Come posso mettermi a servizio della Chiesa e del mondo?, anche la vocazione presbiterale risulterebbe molto più evangelicamente comprensibile. Infatti null’altro è se non quella vocazione, che aiuta a far crescere il sacerdozio comune di tutti i battezzati, come ben c’insegna il Vaticano II°. Di forma sintetica potremmo definirla come quella vocazione, che si mette a servizio della Comunità nel suo insieme, facendo crescere la relazione di ogni membro con Gesù e con gli altri fratelli. Mi piace qui ricordare la felice definizione del prete, che ci aveva trasmesso quel grande testimone, che fu don Luigi Serenthà “Il prete è quell’uomo di fede, che mette la sua vita a servizio della fede dei fratelli”.
Donaci Signore di questi preti!
Pe. Marco