Oggi noi ambrosiani celebriamo la Solennità dell’Incarnazione o, come sarebbe meglio dire, della Divina Maternità di Maria.
Per poter meglio rileggere in chiave contemporanea questa festa, penso sia meglio approfondire il testo di Isaia della prima lettura.
Questi versetti, di primo acchito, potrebbero sembrare incomprensibili (gli ultimi tre), o espressione di un momento di euforia, magari a seguito di qualche campagna militare vittoriosa. In realtà questo brano, appartenente ai capitoli del Terzo-Isaia, sono stati scritti da quel profeta in un momento di grande abbattimento del Popolo d’Israele. Infatti siamo in pieno post-esilio ed anche tutti i deportati a Babilonia sono ormai ritornati nella Terra Promessa. Eppure il popolo è abbattuto e disorientato.
Certamente la Terra Promessa non è la stessa narrata dai padri ai figli durante l’esilio. La stessa umiliazione dell’esilio ha lasciato il suo marchio indelebile. Ma più di tutto ciò un terzo fattore segna irrimediabilmente la fede del popolo in quegli anni: la consapevolezza che i loro padri erano stati causa dei propri mali; la loro infedeltà a JHWH, all’Alleanza stabilita al Sinai e rinnovata a Sichem, aveva generato la tragedia dell’esilio.
Ecco che il Terzo-Isaia si ritrova a vivere la sua vocazione profetica con e per un popolo, che ormai non crede più nella forza liberatrice di JHWH. Le notizie e, soprattutto, l’enfasi liturgica nel celebrare la Pasqua vengono vissute dai discendenti di Giacobbe come freddi riti, da ripetere meticolosamente ogni anno, ma senza alcuna attinenza con la pesantezza del presente. JHWH sarà pure il Dio degli eserciti ed il Santo d’Israele; ma tutto ciò per l’ebreo del post-esilio è un puro atto di fede, totalmente slegato dalla drammaticità della vita presente.
Come normalmente avviene in tutta la tradizione profetica, Isaia deve annunciare, anzi forse sarebbe meglio dire gridare, che “il braccio del Signore non è venuto meno”, la Sua forza liberatrice continua ad operare. Anzi il suo sogno ora è fare di Israele la città sul monte, il centro della Giustizia, che irradierà su tutta la Terra ed a sé attirerà tutti i popoli della Terra.
Ecco allora il senso delle grandi visioni universalistiche del Terzo-Isaia: far sognare di nuovo Israele, far sì che Israele guardi oltre il suo drammatico presente e si metta in gioco per permettere a JHWH di costruire questo meraviglioso futuro.
L’Incarnazione del Verbo nel seno di una adolescente di Nazareth ripercorre sostanzialmente la stessa logica e le stesse dinamiche. La variante della disponibilità di Maria nel mettersi in gioco, nel non lasciarsi condurre dalle sue emozioni incontrollate, ci mostra la possibilità di affidarsi nella Fede al Signore dell’Esodo.
A questo punto il bravo predicatore della retorica cattolica si lascerebbe andare ai soliti sperticati elogi di Maria, per non fare i conti con la nostra realtà attuale e, soprattutto, con la nostra fede.
Ecco perché preferisco soffermarmi brevemente nell’evidenziare le grandi analogie del nostro presente, ahimè, con lo stato d’animo del popolo del Terzo-Isaia. Da questo punto di vista la mia condizione periferica, rispetto al resto della Diocesi, e la condizione sociologica della Valvarrone mi offrono un terreno privilegiato nell’evidenziare le suddette analogie. Ma, come dicevo, questa situazione mi offre il privilegio di vedere la realtà per ciò che è, senza le illusioni delle grandi parrocchie, dove i riflessi delle quantità nascondono i problemi soggiacenti.
Ecco allora che uno di questi giorni, pregando, mi chiedevo che fede è la nostra, del nostro Occidente decadente. Come mai, mentre custodiamo e contempliamo le grandi opere religiose compiute dai nostri padri, non scorgiamo in esse quella Fede, semplice e genuina, capace di sfidare le avversità del loro presente? Soprattutto qui, in queste valli, ogni angolo ed ogni vetta trasuda di quella Fede e quella fatica, con le quali sono state affrontate, sia le sfide della vita, che la durezza della montagna. Ma ciò è stato possibile perché i nostri padri non avevano tempo, né poesia, per stare a contemplare un mitico passato. Invece, certi dell’Incarnazione percepita come una Provvidenza onnipresente, si sono lanciati in sfide a dir poco impari, fino al punto da varcare anche l’oceano.
I figli invece, ossessionati da un benessere anestetizzante, sputano rabbia e malcontento in ogni occasione, mentre oscillano tra la contemplazione di un passato mitico, mai esistito in quella forma, ed un presente secondo loro troppo duro per essere affrontato.
In questo contesto che, mutatis mutandis, aleggia su tutta la realtà italiana, mi chiedo: chi è il dio nel quale noi crediamo? Da dove viene e come l’abbiamo costruito a nostra immagine e somiglianza fino al punto di confermare le nostre paure, senza salvarci dalle stesse? Certamente non è il Liberatore che ha tolto Israele dall’Egitto e Gesù dalla tomba. Infatti, se Lui è in grado di “far fiorire il deserto”, volete che non sappia affrontare questo Terzo Millennio?
Ma il vero problema non è Lui, bensì noi, presunti suoi discepoli, in realtà perennemente sedotti dal signore dello scetticismo e delle divisioni.
Celebrare la Festa dell’Incarnazione significa scegliere a chi vogliamo affidarci.
Pe Marcos