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Una volta tanto ci ritroviamo con una sintonia tematica tra la Seconda Lettura ed il Vangelo. Pena che ciò ha comportato il sacrificio della Prima Lettura…
In ogni caso, il tema di fondo di queste letture è quello della Misericordia divina nei riguardi dei peccatori. D’altro canto, ancora una volta, il nodo problematico non sta sul versante divino. Tant’è che questa affermazione assoluta: Dio è Misericordia, praticamente non fa una grinza. Certamente è una delle affermazioni più in voga oggigiorno e sulla quale sarebbe molto facile costruire un ecumenismo a buon prezzo.
I problemi sorgono quando si tratta di vedere chi sono i destinatari della Misericordia divina. Fermo restando che tre concetti biblici sono inclusi nel termine Misericordia: il perdono dei peccati, la tenerezza e la compassione, i testi di oggi distaccano il significato per noi più comune, quello legato al perdono dei peccati. Detto ciò, se riproponiamo la domanda: chi sono i destinatari della Misericordia? La risposta è scontata ed evidente: i peccatori. Pertanto è assolutamente ovvio e conseguente che Gesù si occupi di loro, vada a cena da loro, li metta al centro della sua missione; infine, siano al centro del Vangelo.
Ma, tutte le volte che ciò accade, ecco che succede un fenomeno apparentemente strano: qualcuno si lamenta, qualcuno ha da ridire, qualcuno si sente escluso. E qui, credo, valga la pena che ci soffermiamo un attimo, per mettere a fuoco questa, presunta o reale, esclusione. Forse non si tratta di una vera e propria esclusione. In ogni caso se avviene qualche forma di selezione tra i peccatori e gli altri, come ciò avviene? Da dove nasce questa differenziazione? La risposta mi sembra, purtroppo, molto evidente: nasce dal fatto che “qualcuno” non si riconosce peccatore, non s’identifica come peccatore ed agisce da “giusto”.
Prima ancora di andare a vedere il merito di questa pretesa, penso sia importante mettere a fuoco che qui, e solo qui, sta il problema; ovvero, è a questo livello che nasce la distinzione e la separazione tra i giusti e i peccatori; e nasce, ripeto, perché qualcuno si vuol differenziare, ritenendosi giusto. Non è una separazione introdotta da Gesù. Non solo. La soluzione di questo problema sarebbe, in teoria, estremamente semplice: basta riconoscersi peccatori. Semplice no? In teoria sì, ma in pratica non lo è così tanto come a dirlo.
A dire il vero tutti, più o meno, si definiscono peccatori; salvo poi non sapere cosa dire nella Confessione, o nell’atto di chiedere perdono a Dio. In altre parole, un conto è la dichiarazione formale del nostro essere peccatori, un altro è il riconoscimento, reale e sincero, del “mio” peccato, della “mia” avversità nei confronti di Gesù. E qui sta, a mio avviso, un nodo estremamente delicato, perché molto diffuso tra di noi, uomini e donne, che frequentano regolarmente la Chiesa. Purtroppo, normalmente, più una persona è assidua frequentatrice degli ambienti ecclesiali, più sviluppa questa sindrome del “giusto”, con tutte quelle ricadute molto ben stigmatizzate dal Vangelo.
Ma la questione diventa ancor più drammatica, se pensiamo che le nostre Comunità sono composte prevalentemente da “giusti”. Ebbene, pur non citando l’ennesimo esempio della mia brillante realtà pastorale, a me pare che qui sta la radice della sclerosi pastorale, che affligge gran parte delle nostre parrocchie. Infatti, come potrebbe un insieme di presunti giusti mettersi in discussione, rivedere scelte ed atteggiamenti già da decenni fallimentari ed inefficaci? E non è vero che “ci vuole qualcuno che mostri loro tutto ciò”. Infatti, così come a livello educativo serve perlomeno il desiderio di apprendere, per poter essere istruito; ancor di più a livello spirituale e pastorale.
Una Comunità di “giusti” come fa a voler cambiare, crescere, migliorare? Tutt’al più, se avverte vagamente qualcosa che non va, immediatamente cercherà di individuare fuori di sé la causa, o il colpevole di tale malessere. Infatti, “cosa possiamo farci, se la gente non vuole venire in Chiesa, non vuole partecipare delle nostre proposte?”, mi sento ripetere continuamente. Ma non c’è pericolo che qualcuno si chieda: “Dove abbiamo sbagliato? Che cosa possiamo fare per migliorare? Che cosa dovremmo cambiare nel nostro modo di essere Comunità, di vivere il Vangelo? Che cosa nel nostro stile di vita offusca il Vangelo di Gesù?”. Purtroppo, questo tipo di domande non me le sento ripetere e, se per caso mi azzardo a porle in qualche contesto, subito mi sento ripetere: “Ah, ma lei non ci valorizza. Ha sempre qualcosa da ridire”.
E così non ci resta che ridere, o piangere, di fronte ad una situazione ecclesiale così incancrenita e sclerotizzata.
Pe. Marco