“Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.” Questo versetto della prima lettura penso ci dia il giusto profilo dal quale meditare sui testi di oggi. Personalmente penso non ci sia molto da dire sulla parabola del Buon Samaritano, che già non sia stato detto. Indubbiamente con questa parabola Gesù ci vuol dire chi è e cosa fa il Padre suo e nostro.
D’altro canto non possiamo dimenticare che tutta la vicenda nasce da una domanda molto umana e assolutamente pratica: “Che cosa devo fare per ereditare la Vita Eterna?” e si conclude con l’invito di Gesù: “Va’ e anche tu fa così”; quindi, ancora una volta, Gesù ci parla del Padre, ma non per portarci a fare meditazioni belle, quanto astratte su di Lui. Il parlare del Padre è per farci rispecchiare in Lui, per ricordarci come sono i suoi figli e cosa devono fare, per essere riconosciuti come tali.
Ecco allora che sarebbe estremamente riduttivo, se non addirittura fuorviante, leggere questa parabola come una pia esortazione ad essere buoni ed a ricordarsi di fare la carità. Il Buon Samaritano, come anche il Padre buono del cap. 15 sempre di Luca, sono la rappresentazione efficace dello stile di vita cristiano e, dunque, dello stile di vita al quale sarebbe chiamata tutta l’umanità.
A questo punto del discorso a me viene spontanea una domanda. Perché Gesù, per parlarci della differenza cristiana, non ci ha raccontato una “parabola cultuale”, ovvero ambientata in un contesto cultuale? Anzi, ancor più radicalmente, perché Gesù non ha raccontato nessuna parabola realmente cultuale, tranne quel breve accenno della parabola del pubblicano e del fariseo al tempio? In altre parole che cosa definisce meglio lo specifico cristiano, il culto o la carità? Probabilmente ai più queste domande possono apparire capziose e sostanzialmente fumose. Eppure io credo che se le prendessimo sul serio e da qui rivedessimo l’insieme della nostra pastorale, potremmo trarne delle conseguenze non da poco e delle ricadute molto pesanti sulle nostre priorità.
Purtroppo, in questo ormai anno e mezzo di permanenza in Italia, non posso non rileggere e comprendere più profondamente tante degenerazioni, che ho incontrato nella mia esperienza missionaria in Brasile. In ultima analisi, se l’America Latina è stata ed è tutt’ora il continente con il maggior numero di cattolici ed, al tempo stesso, anche tra i più ingiusti del pianeta, lo si deve anche all’alternativa proposta sopra.
Infatti la vita delle comunità cristiane, ancora oggi, è prevalentemente, se non esclusivamente, centrata sull’attività cultuale, sulle celebrazioni liturgiche. Anche nei casi delle parrocchie dalle molte attività, il momento cultuale è ciò che fa da discriminante per la vita del fedele qualunque. Volendo fare un esempio approssimativo, per valutare il senso di appartenenza alla comunità cristiana, sia a livello scientifico, che nel nostro linguaggio comune, normalmente viene preso come indicatore la frequenza alle Messe. Ovviamente queste riflessioni non intendono mettere in discussione l’importanza della Celebrazione Eucaristica; bensì cercare di confrontare la nostra prassi pastorale, il nostro sentire ecclesiale con la Parola di Gesù.
E così succede, purtroppo, che degli pseudocattolici, che si considerano super cattolici, baluardi della retta fede, non si vergognano di discutere pubblicamente sui media il fatto che Papa Francesco dia le benedizioni a giovani e bambini, senza usare il formulario ufficiale previsto per il Papa (sic). Oppure sempre in nome del Vangelo, si osa attaccare Papa Francesco, riducendolo ad un carismatico esponente delle ONGs, ma “ignorante” quanto a dottrina e apparati liturgici. Ma queste accuse infamanti esplodono giustamente in questa circostanza storica e di fronte a questo modo d’intendere il papato. Ovvero a causa di questo Papa, che prendendo alla lettera l’insegnamento di questa parabola, guarda gli uomini e le donne che incontra, a partire dalla loro situazione reale, dal loro bisogno e non con i filtri ideologici del mercato, del sesso, della razza, della cultura. E così il bisogno e la povertà diventano criterio nel determinare la maggiore o minore prossimità. E nient’altro.
Ma la sentenza di Gesù è categorica e, forse, noi preti dovremmo metterla in risalto più spesso: solo il sentire compassione per “l’altro”, come ha sentito il Samaritano, senza preoccuparsi di chi sia “questo” altro, ebbene questa con-passione, questo sentire e patire con “l’altro” è ciò che ci introduce nella Vita Eterna, nell’Eternità. Senza questa con-passione parlare di Vita Eterna è mero “flatus vocis”.
Pe. Marco