Le tre letture di questa domenica sono attraversate da un unico tema, sviluppato da vari punti di vista: la conversione/fedeltà d’Israele alla Parola di Dio, quale via d’accesso alla Salvezza, per il resto dell’umanità. In altre parole, JHWH ha scelto Israele per offrire la sua Salvezza all’intera umanità. Per questo motivo, dalla fedeltà o meno d’Israele dipende, non solo la sua Salvezza, bensì quella di tutta l’umanità. Questo tema appare a più riprese nell’Antico Testamento, soprattutto nei Salmi, che inneggiano alla “città elevata sulla cima dei monti e più alta dei colli”, con chiaro riferimento a Gerusalemme, chiamata ad essere segno e riferimento per tutte le nazioni.
Da questa prospettiva possiamo allora cogliere il senso della passione, con la quale Geremia richiama il suo popolo alla conversione. Ma anche la complessa lettura teologica, che S. Paolo fa nella seconda lettura, con la quale cerca di ritrovare un senso nell’ostinazione, con la quale Israele ha in gran parte rifiutato il Messia. Fino a giungere all’indicazione, data da Gesù ai Dodici: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”.
Questo brevissimo versetto, tra l’altro, è estremamente importante per capire il senso e l’orientamento della missione di Gesù. Infatti, Lui intendeva la sua missione come da rivolgersi innanzitutto a Israele, perché lo stesso, ritornando a JHWH, e accogliendo la Buona Novella del Regno, avrebbe dovuto essere il segno eloquente, l’incarnazione visibile della bontà del Regno di Dio. In questo modo, per attrazione, per contagio, i pagani avrebbero dovuto accorrere, per essere coinvolti in questo dinamismo di Salvezza.
Di fatto, però, le cose non andarono esattamente così e la maggior parte di Israele non accolse il Vangelo e, soprattutto, Gesù non venne riconosciuto come “Colui, che doveva venire”, il Messia atteso da secoli e secoli… Eppure, paradossalmente, nei Dodici e negli altri pochi Ebrei, che accolsero il Vangelo, le profezie si sono realizzate. Loro sono quel “resto d’Israele”, di cui parla la Scrittura, aperto e disponibile alla Parola di Dio. Da qui nascerà colei che, ancora oggi, è chiamata la Chiesa, l’Ecclesia, l’Assemblea dei convocati dal Signore.
Detto ciò, se questo è stato l’imprevedibile e sorprendente cammino della Storia della Salvezza, questo percorso non è terminato, perché la Storia dell’umanità continua. Ecco allora che, senza soluzione di continuità, quanto detto fin qui per l’antico Israele, il Popolo dell’Antica Alleanza, vale a maggior ragione per il nuovo Israele, per il Popolo della Nuova Alleanza, per la Chiesa. E qui vale ricordare, una per tutte, la famosa definizione della Chiesa, data dalla “Lumen Gentium” 1: “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.
Benché possa apparire pleonastico, a me pare importante sottolineare e richiamare la precisione di questa definizione. Ovvero la Chiesa non è definita semplicemente “strumento” della Salvezza. La Chiesa, per essere Chiesa di Gesù, deve essere anche “segno” della Salvezza, ovvero non solo indicare Gesù come la Salvezza, ma accogliendolo, vivendo di Lui, è il “segno”, concreto e tangibile, di quanto sia buono e salutare la Sua proposta di vita; di quanto faccia la differenza vivere con o senza Gesù. Ecco, allora, ancora una volta l’emergere dell’importanza della vita, della nostra vita concreta, quale luogo, spazio esistenziale dove può manifestarsi la fecondità del Vangelo.
Ovvero, ancora una volta, ritorna in evidenza l’importanza di quanto Papa Francesco ci ha detto nella “Evangelii Gaudium”: il Vangelo si trasmette per attrazione, per contagio e non per proselitismo. L’evangelizzazione cristiana è figlia della testimonianza, prima e più che di facili ed, a volte, vuoti proclami verbali, o, peggio ancora, di grandi e potenti mezzi tecnici ed economici. Inesorabilmente il procedere della Storia della Salvezza mette in luce, ancora oggi, chi vive di Vangelo e chi parla di Vangelo. Eppure le nostre Chiese occidentali, nonostante i continui e ripetuti richiami, della Storia e della Vita, si preoccupano più di giustificare o razionalizzare le nostre contraddizioni ed i nostri peccati, piuttosto che chiamarli con i loro nomi e trattarli come tali.
Ma se “le pecore perdute della casa d’Israele” non accoglieranno la Buona Novella, beh non devono poi meravigliarsi delle conseguenze…
Pe. Marco