“Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”.
Purtroppo, per la riflessione sulle letture di questa domenica, sono “costretto” ad iniziare lo scritto riportando i tre versetti, di cui sopra, che sono la vera conclusione del brano, scritta dalla Comunità di Giovanni duemila anni fa. I nostri liturgisti, a volte, pensano di essere più importanti di Dio e si permettono di “castrare” la sua Parola a loro piacimento, a seconda delle sensibilità e delle mode del momento. Infatti, chi ha un minimo di memoria, dovrebbe ricordare che, fino all’entrata in vigore della (contro)riforma liturgica della Diocesi di Milano, questo testo veniva proclamato nella sua integralità.
Quali sono le ragioni addotte per questo taglio? Chiaramente sono quelle di dar maggior risalto alla professione di fede del cieco: “Io credo, Signore”; ma il problema è che, forse, non ci si è chiesti seriamente il perché Giovanni non si è fermato qui; avrebbe potuto farlo tranquillamente. Eppure il testo è attraversato da un’evidente tensione tra i farisei e Gesù. Come si possono allora tagliare gli ultimi strascichi di questa polemica? In questo modo risulta evidente che la professione di fede del cieco rimane lì sospesa come un fatto astorico, astratto, e ci vengono a mancare gli elementi per capire fino in fondo, perché facciamo fatica a porre realmente Gesù come Signore della nostra vita.
Non solo, ma essendo questi versetti rivolti agli uomini religiosi per eccellenza, ovvero ai farisei, è abbastanza evidente che questi ultimi versetti sono quelli che interessano più da vicino gli uomini religiosi di oggi, ovvero quelli che, a Messa, riascolteranno questa Parola. Ed ecco allora che Gesù, dopo la bellissima riflessione sul rapporto Libertà-Verità del Vangelo di domenica scorsa, oggi approfondisce quell’invito a “diventare suoi discepoli”, per poter accedere alla Verità, che ci libera. Già i vv. 31-32 del cap. 8 sottolineavano molto bene come la Verità per noi uomini non è mai un’evidenza chiara e immediata, che una volta raggiunta, basta possederla e difenderla. Tutt’altro! È invece un processo, un cammino di scoperta continuo, dentro le situazioni in cui il Signore ci pone a vivere. In questo modo possiamo scoprire, “vedere”, qualche barlume della Verità, ma sempre a partire dai condizionamenti storico-culturali, in cui ci troviamo a vivere. Solo il confronto fraterno “dei nostri diversi punti di vista” potrà permetterci di “vedere” meglio la Verità, di “entrarci dentro” un po’ di più.
Se questo è l’atteggiamento dell’uomo e della donna veri, ecco che Gesù oggi ci dice inesorabilmente che questo atteggiamento vale anche, anzi, soprattutto per le persone, che dicono di essere credenti. Purtroppo, soprattutto oggigiorno e soprattutto negli ambienti “super cattolici e super cristiani” si fa un uso indebito dell’affermazione “la luce della Fede”. Infatti, in modo acritico e semplicistico, questa affermazione viene appiccicata, come un adesivo, su delle opinioni o dei gusti religiosi soggettivi. Così, a partire da questi “pruriti spirituali”, si giudica e si condanna tutto ciò non collima con questi. Ora, quando diciamo che Gesù di Nazareth è la nostra “Luce”, significa proclamare che in Gesù e nel suo Vangelo io posso trovare i criteri ed i mezzi per “fare Verità” in tutte le situazioni, che la vita mi può proporre.
Tutto ciò e, soprattutto, i versetti con cui abbiamo iniziato questa riflessione tolgono al vero credente, al vero cattolico, al vero cristiano, qualsivoglia pretesa di possedere, già da sempre, la Verità e le conseguenti risposte alle situazioni della vita. Se “ieri” il Vangelo di Gesù mi ha mostrato cosa dire e fare in quella determinata situazione, “oggi” sarà sempre e comunque un’altra situazione, nella quale dovrò partire dalla mia “cecità” esistenziale per capire, con Gesù ed i fratelli, cosa devo fare in “questa” nuova situazione. Questa bellissima finale del Vangelo di oggi, tristemente censurata, toglie al vero credente qualsivoglia pretesa di dominio e possesso sulla Verità.
Eppure noi stiamo vivendo una stagione, religiosa e culturale, nella quale questo atteggiamento di fede, umile e autentico ad un tempo, viene tacciato come debolezza nella fede. Mentre invece, anche da parte di certe gerarchie ecclesiastiche, c’è la tendenza di affidarsi/appoggiarsi ai soliti “ciechi” di sempre, con le loro illusioni e le loro false certezze, che non possono che portarci nel baratro, come del resto ci aveva a suo tempo avvisati Gesù.
Mentre scrivo queste righe mi vengono alla mente “riflessioni tristi” fatte in ambito ecclesiastico, a partire dal dopo voto italiano. L’aspetto, che più mi ha rattristato, fino al punto di sentire un grande senso d’impotenza, è stato il constatare, non tanto la diversità delle opzioni elettorali, bensì la mancanza di fondamento evangelico di queste scelte; mancanza di fondamento evidenziata dalla qualità del nostro confronto, in gran parte incentrato su gusti ed emozioni personali, più che su criteri evangelici. Se le guide spirituali sono così arrogantemente cieche, forse riusciamo a capire perché il Popolo di Dio vive questa deriva politico-culturale.
don Marco