Intervista di Stefano Feltri a Paolo Prodi.
«Se non c’è passato non c’è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l’idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie.Ma si cambia senza sapere dove si va».
In una politica europea piena di populisti, indignati, ribelli contro l’austerità, l’ultima persona da cui ti aspetteresti discorsi sulla rivoluzione è Paolo Prodi. A 83 anni il professor Prodi, fratello del Romano che è stato premier, è uno dei più autorevoli storici italiani, ha scritto coltissimi libri sul potere e la storia delle nostre istituzioni. Adesso manda in libreria un piccolo saggio dal titolo che incuriosisce: Il tramonto della rivoluzione, pubblicato ovviamente dal Mulino
Professor Prodi, cos’è una rivoluzione?
I colpi di Stato non sono mai mancati, la lotta di chi non ha potere contro chi ha potere esiste dalle civiltà mesopotamiche. Ma non è la rivoluzione. Quello che ha distinto l’Occidente dalle altre civiltà è la capacità di progettare un modello sociale nuovo. Spesso con gli aspetti tragici della sommossa, certo, ma all’interno di una visione di sviluppo.
Perché questo è avvenuto soltanto in Occidente?
La rivoluzione francese e l’illuminismo sono il culmine di un processo secolare che ha distinto il potere politico da quello economico e da quello sacro. Nelle antiche civiltà il palazzo e il tempio tendevano a coincidere. Con il cristianesimo si sviluppa il dualismo del “date a cesare quel che è di cesare e a Dio quel che è di Dio” che nel medioevo diventa lotta tra papato e impero, con la nascita del potere economico come un potere di tipo nuovo, non legato al possesso della terra.
Nell’Antico testamento si sviluppa l’idea di profezia come espressione di una volontà di un dio super partes. Non identificato col potere, ma che si mette in dialettica con esso e ne condanna gli abusi. È questa l’idea che mette le sue radici anche nel cristianesimo. La Chiesa diventa profezia istituzionalizzata: il profeta non è più isolato, ma diventa una comunità. Che non si identifica con il potere, anche se spesso finisce per entrarvi in combutta. Non voglio dire che la teocrazia non è esistita, anzi. Ha messo la testa fuori in Occidente in ogni generazione, il potere sacro ha sempre cercato di impadronirsi di quello politico ed economico, ma in Occidente non si sono mai identificati l’uno con l’altro. Questo ha prodotto una fibrillazione, una tensione continua, che ha portato allo sviluppo dell’idea di rivoluzione. E si arriva alla decapitazione di Carlo I nel 1648.
La prima utopia è quella di Thomas More. È la progettazione di una società “felice”. Che riempie il contenuto rivoluzionario di un nuovo potenziale. Non si parla più di profezia legata alla “fine dei tempi”, la profezia si storicizza e diventa utopia. La storia della salvezza diventa “progresso”, movimento.
E oggi è finita l’idea di progresso?Qualche anno fa anche l’Economist ha fatto una copertina sul tema.
Si è molto parlato di uso politico della storia. Ma non è più come un secolo fa, diciamo così, la matrice della cultura politica. Io ricordo sempre la famosa frase di Johann Gustav Droysen, uno storico dell’Ottocento, che diceva: “L’uomo politico è lo storico pratico”. Ma negli ultimi cinquant’anni le scienze della società, come la sociologia, sono subentrate alla storia come sostegno della politica.
Nel senso che c’è l’illusione di trovare leggi e ricette universali?
Ho visto interviste a politici che non sanno quando è stata la rivoluzione francese. Sono sciocchezze, ma sotto c’è la cancellazione del passato.
Non è più necessario conoscerlo?
Non è più ritenuto necessario. E questo porta a grandi sbagli, come quello della politica americana che si è convinta di poter esportare lo stato di diritto nei Paesi arabi.
Abbiamo rinunciato all’idea di una società alternativa?
Se non c’è passato non c’è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l’idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va.
Perché, nel suo libro, lei dice che il Sessantotto, con “l’immaginazione al potere”, è stato la sconfitta definitiva della rivoluzione?
Io l’ho vissuto cercando di fare la riforma dell’università a Bologna, all’epoca, quando da noi era venuto Jean Paul Sartre, mi sentii in qualche modo respinto. Perché non c’era un progetto di riforma, ma solo una volontà di cancellazione della storia. Ma “l’immaginazione al potere” senza la storia porta a precipitare nel burrone. Nel Sessantotto si squarciano i veli del potere ma sotto non c’è nulla, è nudo non soltanto il vecchio re ma anche quello nuovo che ambisce a prenderne il posto. La generazione del Sessantotto infatti si è sciolta, disfatta, nei rivoli del potere tradizionale. C’era l’attacco al potere esistente, ma sotto questa lotta è rimasta schiacciata la progettazione di una società futura. La divisione in due blocchi, nella guerra fredda, ha coperto il vuoto. Dagli anni Novanta tutto è tornato a tremare.
L’anima dell’Europa è quella di una “rivoluzione permanente”, scrive. Tutto sembra questa Unione europea tranne che rivoluzionaria…
L’equilibrio di tensione, di fibrillazione, tra i vari poteri in concorrenza tra di loro è svanito. Il caso greco e la crisi dell’euro occupano la scena ma sono effetti, non cause. Lo Stato moderno non è più in grado di controllare il potere finanziario.
Alcuni Stati come la Repubblica popolare cinese, però, sembrano ben saldi.
La filosofia del neo confucianesimo è che l’ordine celeste corrisponde a quello terrestre del potere. Mentre le strutture democratiche dell’Occidente – il Parlamento, le legislature, il giuramento del presidente della Repubblica – sono nate dalla tensione tra poteri, in Cina, invece, dopo la crisi della cosiddetta Rivoluzione culturale, c’è stato un ritorno alle radici di tipo confuciano: il potere è uno solo e viene dall’alto. Mentre la società europea e occidentale arranca di elezione in elezione, i leader cinesi durano decenni. L’idea di legislatura di quattro-sei anni è nata nell’Inghilterra del Settencento e non regge più: è troppo breve. Se certe decisioni sull’ambiente sono prese per ottenere il consenso degli elettori, è difficile che vadano bene anche per i nostri nipoti. In un mondo che va sempre i più veloce i tempi della politica dovrebbero essere più lunghi.
È una cosa totalmente diversa. L’Islam è un’eresia nata nell’humus ebraico-cristiano, che ha proposto una coincidenza tra potere politico e potere religioso. Per questo non può essere rivoluzionario, nell’accezione che uso io, è soltanto un urlo contro la civiltà dei consumi. Ma quello che propone l’Isis, con il Califfato e tutto il resto, è soltanto il ritorno a una storia pre-cristiana. A quell’unione tra potere sacro-politico ed economico che è stato il punto di partenza dell’Islam, nel settimo secolo.
Che cos’è il “diritto alla resistenza” di cui scrive?
È un concetto che ricorre nella nostra storia, da Tommaso D’Aquino alla Costituente italiana, 1946-1947, quando alcuni giuristi volevano inserire la liceità della resistenza all’ingiustizia. Poi non entrò nella Costituzione ma più aumenta la divaricazione tra la coscienza e la legge, più cresce l’importanza del diritto alla resistenza.
Nel complesso, lei sembra un po’ pessimista.
Come storico io mi fermo all’analisi di quello che è stato. Ma si apre in questa globalizzazione una battaglia estremamente interessante tra una società dominata dalle grandi potenze finanziarie e una società in cui le comunità locali e in particolare i corpi intermedi possono trovare una loro rinnovata espressione di tipo politico. Non possiamo più pensare all’Europa come un super Stato, come pensavano i nostri bravi padri federalisti. Bisogna pensarla come una società con una sovranità stratificata, non monolitica.