ROMA – Hanno esaminato i dati raccolti dal 1998 al 2011 e relativi a 5000 coltivatori di mais e 5000 coltivatori di soia distribuiti su tutto il territorio degli Stati Uniti: per ognuno di loro erano registrate le sementi, i pesticidi e gli erbicidi acquistati. Poi hanno incrociato le informazioni pubblicando su Science Advances lo studio più ampio mai realizzato negli Usa sulle coltivazioni geneticamente modificate. Con un risultato che ha stupito gli stessi autori: almeno nel caso della soia, l’uso di sementi transgeniche ha fatto aumentare, anziché ridurre, l’uso di erbici nei campi.
GianCarlo Moschini insegna economia alla Iowa State Univeristy di Ames. E’ arrivato in questa cittadina nel cuore del Midwest dopo aver studiato a Piacenza e aver lavorato in atenei americani e canadesi. Ma non si trova male. “Ames ha 60mila abitanti, ma 36mila sono studenti. Non è una metropoli, ma la presenza dell’università la rende cosmopolita”. Intorno al campus e alle villette con giardino si estendono a perdita d’occhio migliaia di ettari coltivati in modo intensivo. Anche per questo la vocazione dell’Iowa State University è l’agricoltura. Moschini, in particolare, studia l’impatto delle nuove tecnologie su campi e piantagioni. “Da anni seguo l’aspetto economico degli ogm” spiega. “Ora, grazie alla collaborazione del Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, abbiamo potuto elaborare dei dati che non erano mai stati usati in precedenza”.
Le coltivazioni prese in esame sono state due. I campi di mais modificato geneticamente per resistere agli insetti e quelli di soia transgenica resistente al glifosato, uno degli erbicidi più usati (e più criticati). Lo studio di Moschini, Federico Ciliberto, Edward D. Perry e David A. Hennessy, dimostra che l’uso del mais ogm comporta in effetti un taglio dell’11,2% dei pesticidi. Ma la vera sorpresa riguarda i coltivatori di soia: chi usa quella transgenica finisce per spargere sui campi il 28% in più di erbicidi rispetto a chi pianta sementi naturali.
“Non ce lo aspettavamo, però i dati sono lampanti”, confessa Moschini. Ma quale può essere la spiegazione? “Sicuramente ha contato il fatto che negli Usa a partire dai primi anni 2000 il prezzo del glifosato è sceso, perché è scaduto il brevetto della Monsanto“, risponde l’economista. “Questo ha incentivato gli agricoltori a usarne grandi quantità, sapendo che la loro soia non ne avrebbe risentito perché programmata per essere resistente. Ma dall’analisi dei dati emerge che queli stessi agricoltori negli anni successivi hanno usato altri erbicidi. La cosa più probabile è che le erbe infestanti abbiano sviluppato una resistenza al glifosato”.
Così la soia ogm, pensata per ridurre l’uso di erbicidi, ha prodotto l’effetto contrario. “Bisogna precisare però – avverte Moschini – che si parla di chilogrammi di erbicida per ettaro di terreno. Se invece si fa una sorta di media ‘pesata’, tenendo conto anche degli effetti delle diverse molecole, si arriva alla conclusione che coltivatori di soia ogm e di soia naturale hanno usato sostanzialmente la stessa quantità di erbicidi”.
E allora, c’è da chiedersi, perché usare semi geneticamente modificati. “I vantaggi, per una agricoltura industriale come quella degli Stati Uniti, sono sostanziali”, risponde Moschini. “Ma è chiaro che la soia ogm ha incentivato un uso sproporzionato di glifosato producendo nel lungo termine l’anomalia che abbiamo riscontrato. Dobbiamo invece pensare a meccanismi che prolunghino i vantaggi di questi semi nel tempo”.
Insomma, nonostante il risultato della sua ricerca, GianCarlo Moschini crede all’ingegneria genetica applicata all’agricoltura. “Negli Usa più del 90% del mais e della soia coltivate sono ogm. Nessuno di noi rinuncerebbe all’automobile pur sapendo che inquina. Per l’agricoltura americana vale lo stesso discorso: i benefici sono maggiori dei costi, che vanno comunque ottimizzati”.