L’Asia “maglia nera”. In Italia situazione dieci volte peggio che in Francia
Siamo ormai disabituati alla parola «schiavitù», un termine che rimanda,
nell’immaginario collettivo, ad epoche passate. Eppure gli schiavi sono ancora tra noi,
anche se non ce ne accorgiamo, nascosti come sono tra le pieghe di attività criminali
messe in piedi da chi ancora oggi punta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’Indice
della schiavitù globale 2016 – iniziativa della Walk Free Foundation nata nel 2002 per
volontà del magnate dell’industria mineraria australiana Andrew Forrest e della moglie
Nicole – ci racconta delle nuove schiavitù (dalla tratta di esseri umani al lavoro forzato,
dai matrimoni forzati allo sfruttamento sessuale), ne descrive le dinamiche e segnala la
reazione dei governi. Il risultato è una graduatoria che vede al primo posto Olanda e
all’ultimo la Corea del Nord sul fronte della lotta contro questi fenomeni, mentre Filippine
e Qatar sono ai due estremi – positivo e negativo – quanto a risorse impiegate rispetto
al Prodotto interno lordo. Il rapporto 2016 indica una crescita della schiavitù globale del
28 per cento rispetto a due anni fa. Si conferma che la maggior parte della popolazione
in condizione di schiavitù, stimata in 45,8 milioni, si concentra per i due terzi in Asia, con
cinque Paesi del continente che assommano il 58 per cento del totale, ovvero 26,6
milioni di individui. L’India mantiene il primato con 18,35 milioni di abitanti considerati
schiavi dal rapporto, seguita da Repubblica popolare cinese con 3,39 milioni, Pakistan
con 2,13 milioni, Bangladesh con 1,53 milioni e Uzbekistan con 1,23 milioni. Forse non
inattesa ma comunque particolare la situazione della Corea del Nord, che non solo ha il
più alto tasso di schiavitù tra gli abitanti (4,37 per cento su 23 milioni di nordcoreani),
ma manifesta anche il minore impegno per cambiare una situazione che soggiace
principalmente alle logiche del suo regime. Regimi e ideologie sono a volte alla base
della presenza di schiavitù, ma rilievo hanno anche le contraddizioni delle società del
benessere raggiunto o prossimo e gli interessi economici che in esse giocano. A fare da
sfondo, poi, sono sovente anche nazionalismo o tradizioni discriminatorie. L’India mostra
tutte o quasi queste tipologie, con i gruppi più interessati dalla schiavitù che sono anche
quelli storicamente più emarginati, in particolare dalla tradizione socio-religiosa induista.
Situazione simile in Pakistan, ma con l’islam a dominare e i gruppi meno favoriti al suo
interno e le minoranze religiose a subire. In Cina ad alimentare le aree della moderna
schiavitù è soprattutto l’interesse economico, che accentua però l’antica discriminazione
verso la donna, da un lato, e dall’altro la diversità di opportunità e privilegi tra
popolazione rurale e cittadina. Più di recente, le vicende mediorientali hanno evidenziato
la condizione di schiavitù di migliaia di donne e di adolescenti, vere «prede di guerra»
nelle aree occupate dai militanti islamici. Per guardare all’Italia, è proprio di ieri la
notizia di tre romeni che hanno raccontato di essere riusciti a scappare dopo un mese di
«lavori forzati» da un ovile nelle campagne di Tiana, nel Nuorese. Hanno detto di aver
lavorato alle dipendenze di un uomo che li maltrattava e negava loro anche il cibo. Sul
caso indaga la Questura di Nuoro. I tre hanno raccontato di essere stati attirati in
Sardegna con la promessa di un lavoro, ma al loro arrivo avrebbero trovato un ovilelager
dove il proprietario li avrebbe trattati come bestie. Stando al loro racconto,
lavoravano tutto il giorno e parte della notte, mangiando un solo pasto, senza mai
potersi allontanare dall’azienda. Domenica hanno deciso di ribellarsi e di scappare e sono
stati avvistati dalla Polstrada. In generale l’Italia conta 129.600 schiavi, con una
percentuale dello 0,211% sul totale della popolazione, un rapporto dieci volte peggiore
rispetto alla Francia. L’Indice considera la risposta del governo italiano al problema tra le
più deboli d’Europa. Nel mondo, nonostante i molti limiti, crescono coscienza e impegno:
sono 124 i Paesi che hanno inserito finora nei propri codici il reato di sfruttamento degli
esseri umani secondo il Protocollo specifico delle Nazioni Unite e 96 quelli che hanno
attuato un piano di azione nazionale.
Può sorprendere che nell’Indice globale della schiavitù l’operosa Hong Kong, dove la
società civile è impegnata in un duro braccio di ferro per garantirsi diritti e libertà altrove
elusi nella grande Cina, sia posta nella stessa categoria di Paesi come Corea del Nord,
Iran e Eritrea per la risposta definita «inadeguata» a varie forme di schiavitù. Di fatto,
se sul territorio la casistica di abusi e inadempienze sulla consistente comunità
immigrata per sopperire alle necessità della propria popolazione produttiva è ampia, il
rapporto punta il dita anche contro gli abusi, interni e esterni al suo territorio che
riguardano le aziende, sovente subappaltatrici di multinazionali che al di qua o – in
maggioranza – al di là del confine con la madrepatria cinese hanno lucrose realtà
produttive. A partire dall’elettronica di consumo. Come ricorda il rapporto, nelle tre
maggiori categorie che cercano di delimitare le ragioni della schiavitù globale, il grande
business è posto alla pari con la criminalità organizzata e lo sfrut- tamento degli esseri
umani. La valenza del problema è infatti anche economica (un valore globale stimato in
150 miliardi di dollari all’anno), con attori che spesso fingono di ignorare che la ricerca di
manodopera a buon mercato ha un pesante prezzo in dignità, salute e diritti negati. Non
a caso, lo stesso promotore del rapporto, Andrew Forrest, chiede ai governi delle dieci
economie più sviluppate «di elaborare e applicare leggi che siano almeno severe come
quella contro la schiavitù moderna approvata nel Regno Unito nel 2015, che assicura
risorse e volontà di colpire le aziende che presentano nella loro catena di fornitori forme
di schiavitù e che garantisce una supervisione indipendente». A confermare una
tendenza positiva di azione, lo scorso febbraio, il presidente Usa Barack Obama, ha
firmato l’aggiornamento di una legge commerciale del 1930 per impedire che le merci
d’importazione abbiano tra gli «ingredienti» anche lavoro schiavo.
La piaga della schiavitù non risparmia neppure l’Europa. La stima complessiva per il
2016 è di 1.243.400 persone, il 2,7% delle vittime mondiali. Di queste, secondo il
rapporto, il 65% sono cittadini comunitari, anzitutto rumeni, bulgari, lituani e slovacchi.
La parte restante è costituita da vittime soprattutto da Nigeria, Cina e Brasile. «Il lavoro
forzato e lo sfruttamento sessuale – si legge nel documento – rimangono le forme più
comunemente registrate di moderna schiavitù in Europa». Si diffondono però sempre
più, soprattutto in Turchia ma non solo, anche i matrimoni forzati di bambini. La
«categoria» più colpita è comunque quella della donne, pari all’80% delle vittime
formalmente identificate nell’Ue, anzitutto rumene, ma anche dell’Africa sub-sahariana
(soprattutto nigeriane). Un quadro drammatico in cui si inserisce ora anche la crisi
migratoria: il rapporto cita l’Organizzazione internazionale per le migra- zioni (Oim), una
cui recente indagine «indica chiaramente che le persone che si spostano da zone di
conflitto e attraverso l’Europa sono ad alto rischio di sfruttamento e sono anzi già prese
di mira» dalle organizzazioni criminali. Un quadro allarmante riguarda i bambini: «Si
stima che di circa 10mila bimbi registrati come profughi si siano perse le tracce, con
5mila spariti in Italia e mille in Svezia». Nn tutti saranno finiti nelle mani dei trafficanti,
ma «Europol avverte che le bande criminali stanno ora puntando a questi bambini per
sfruttamento sessuale, schiavitù, lavori forzati in aziende agricole e fabbriche». L’Europa
presenta anche diversi livelli di protezione. La situazione peggiore è in Kosovo, Turchia,
Albania, mentre la lotta più decisa al crimine è nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna.
L’Italia è a livelli medi, con una risposta alla schiavitù ma «limitato sostegno alle vittime». Stefano Vecchia