di GIULIANO BALESTRERI
MILANO – Governi svuotati di potere e significato. La democrazia che cede il passo all’oligarchia delle multinazionali. Addio alle politiche social-democratiche che hanno fatto la storia dell’Europa per lasciar spazio al neo liberismo. E’ l’epilogo temuto da Colin Crouch sociologo e politologo britannico celebre per aver coniato il termine “postdemocrazia” nell’omonimo libro in cui teorizza il futuro delle democrazie avanzate. In Italia per partecipare al Festival “Fare la pace” di Bergamo fino a 15 maggio, Crouch punta il dito con il Ttip, il trattato transatlantico di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, che “servirebbe ad aumentare le tutele di consumatori, ma invece viene usato solo per ridurle”. E critica l’Unione europea perché “ha dimenticato l’eredità delle Commissioni Delors e Prodi fondate sul compromesso tra liberismo e socialdemocrazia per interessarsi solo al liberismo. Siamo caduti in una trappola da cui non riusciamo a uscire”.
Più che vittima di una trappola, il Vecchio continente sembra stretto tra due idee antitetiche di Europa. Non crede?
No, siamo davvero in trappola. Da un lato siamo consapevoli dei cambiamenti che porta la globalizzazione e delle necessità di avere un’Unione europea capace di affermarsi ai massimi livelli dove vengono prese le principali decisioni economiche; dall’altro abbiamo bisogno di una politica più vicina alla vita quotidiana. Bruxelles dovrebbe convivere con istituzioni vicine alle persone: le decisioni devono essere prese a livelli diversi a seconda degli argomenti. Il rischio che corriamo è quello di pensare che il nazionalismo rafforzi la democrazia.
Il referendum su Brexit, il prossimo 23 giugno, metterà alla prova le due idee di Europa.
L’appartenenza alla nazione rimane tra le poche identità, che legano la gente al mondo politico. E in un mondo pieno di rischi internazionali – dalla globalizzazione economica, che sembra minacciare il lavoro, all’immigrazione fino al terrorismo islamico – c’è la forte tentazione di vedere la nazione come una fortezza. Il referendum britannico darà ai cittadini la possibilità di concentrare tutte queste ansie su un bersaglio singolo: l’Unione europea. Una tentazione che si scontra con la paura di un futuro totalmente incerto, dicendo addio a tutti i nostri rapporti economici degli ultimi 40 anni. Sarà una battaglia tra due paure: quella di un mondo incontrollabile contro quella di un isolamento totale.
Come si sconfigge la paura?
Con un’Europa più intensa. Delors e Prodi lo avevano capito: bisogna legare in maniera indissolubile i livelli più alti a quelli più bassi. Bisogna riscoprire le politiche regionali, aumentando il loro peso. La Scozia è un caso emblematico: vogliono più autonomia a livello locale, ma sono molto legati all’Unione europea per mantenere un ruolo di peso a livello globale. L’Europa non è una tecnocrazia apolitica, ma rischia di diventarlo se ripensiamo rapidamente il ruolo delle istituzioni.
Gli anni dell’austerity hanno contribuito ad allontanare Bruxelles dai cittadini.
Sì, perché sono stati anni persi a consumare tutta l’energia nel tagliare la spesa e a fare attenzione ai bilanci. Invece, sarebbero serviti a fare altre cose.
Per esempio il Ttip?
Anche. Il Trattato transatlantico di libero scambio serve davvero, ma solo se ci permette di aumentare gli standard di sicurezza. Per il momento, invece, le discussioni vertono solo sul come ridurre gli standard: anche perché un mondo con standard di sicurezza più alti ad ogni livello sarebbe un mondo più caro. E gli americani non possono accettarlo. Però gli europei sbagliano a pensare di essere gli unici a garantire la piena tutela dei consumatori e dei cittadini. In alcuni campi è certamente vero, ma sul fronte bancario la realtà è diametralmente opposta: siamo noi che dovremmo imitare i loro standard. E comunque anche negli Stati Uniti crescono le resistenze con la diffidenza ad aprire il loro mercato agli europei.
A preoccupare i cittadini sono soprattutto le clausole Isds che permettono alle aziende di citare per danni gli Stati che con le loro norme mettano a repentaglio i loro profitti.
E’ vero, sono la cosa più pericolosa del trattato. La clausola più antidemocratica. Certo oggi già esistono, ma gli Stati sono liberi di scegliere se riconoscere il diritto alle aziende o meno, con il Ttip diventerebbe invece una regola vincolante per tutti. Il meccanismo di citare in giudizio gli Stati che promulgassero leggi contrarie agli interessi delle aziende era nato per attirare risorse finanziarie nei paesi in via di sviluppo: le multinazionali chiedevano garanzie prima di investire negli Stati a rischio temendo che un cambio di repentino di governo le avrebbe danneggiate. Insomma, il principio era in qualche modo positivo, era un incentivo alla stabilità, ma lentamente il sistema di è esteso fino all’Europa. Basti pensare alla svedese Vattenfall che ha chiesto miliardi di danni alla Germania dopo la decisione – in seguito alla tragedia di Fukushima – chi chiudere le centrali nucleari. Il Ttip in questo senso sarebbe un disastro, il mercato entrerebbe direttamente nelle politiche sociali dei governi che non potrebbe più tornare indietro.
In questo modo il potere sarebbe trasferito alla multinazionali?
Sì, sarebbe il punto finale della post democrazia. Un mondo nel quale le istituzioni tradizionali continuano a esistere, ma si svuotano di significato e la politica non è più in grado di incidere. Per fortuna non siamo ancora a questo punto, ma la strada che abbiamo imboccato è proprio quella. E il Ttip darebbe un’accelerata in questa direzione.
Anche per questo le trattative per il Ttip stanno sollevando proteste in tutta Europa.
E’ vero, le resistenze sono molte: i cittadini stanno prendendo coscienza di questa rischio, ma l’atteggiamento dei manifestanti è ambiguo, si uniscono le proteste di sinistre a quelle della destra nazionalista. Bisogna fare attenzione, perché la difesa delle democrazione non passa per più sovranità. I movimenti nazionalisti cavalcano solo i diasgi della popolazione, dalla paura dell’immigrazione alle paure per l’occupazione.
Come si fa?
I governi devono uscire dalla trappola dei debiti, insomma credo che serva una certa austerità, ma diversa da quella applicata in Europa. Serve un cambiamento di direzione delle politiche sociali che oggi hanno strutture non sono adatte: le pensioni sono troppo generose, mentre mancano le risorse per la formazione e l’istruzione. Abbiamo bisogno di un grande compromesso a livello europeo per incentivare i paesi a usare i soldi in modo migliore. Il caso della Grecia è emblematico: riceve critiche per come usa le sue finanze, ma non è chiaro quali siano le cose giuste da fare. Un tempo l’Europa mediava tra liberismo e democrazia sociale, ora la palla è in mano solo ai primi, senza alcun compromesso.
Renzi si scontra spesso con le politiche europee. Come lo giudica?
Ho casa in Umbria, ma non conosco abbastanza bene la sua politica, di certo vuole essere il Tony Blair d’Italia solo che il suo governo arriva in un momento in cui non c’è molto spazio di manovra proprio per colpa dell’austerity. Per fare riforme profonde bisogna sempre poter offrire qualcosa di nuovo e allettante, non vedo cosa si possa fare in questo momento.